Elezioni Emilia, si può vincere a Stalingrado con il Pil?

Però la politica non è solo Pil, elenco dei primati, evoluzione logica tra realizzazione e consenso. Non c’è da scomodare Churchill, che perse le elezioni dopo aver vinto la guerra, anche perché in questo caso non c’è nessuna guerra vinta. Non è un caso che i primi ad avergli consigliato di non indugiare nell’approccio del “votatemi per quel che ho fatto”, siano proprio alcuni dei suoi spin doctor che ai tempi del referendum erano vicini a Matteo Renzi. In fondo, l’approccio non è così dissimile: il “siamo i più bravi” da un lato, il “cambiamo” dall’altro.

Ecco, adesso che Salvini è calato su Bologna riempiendo il Paladozza, il tema è squadernato sul tavolo: si può vincere la battaglia di Stalingrado facendo finta che non ci sia la seconda guerra mondiale? Si può resistere all’assalto di una destra rocciosa e incombente, al suo “liberiamo l’Emilia per liberare l’Italia”, provando a tenere il conflitto, inevitabilmente aspro e tutto politico, solo su un piano squisitamente amministrativo, per di più con la retorica del “va tutto bene”? Ed è possibile provare a tenerlo su questo piano anche quando, inevitabilmente, si politicizzerà a prescindere da tutte le buone intenzioni? Sono questi i due punti su cui la riflessione è aperta, e magari il conclave democratico dei prossimi giorni a Bologna potrebbe essere l’occasione per farlo in modo compiuto: il messaggio di cambiamento da interpretare che non sia solo la difesa di ciò che è stato e le modalità di approccio alla campagna totale di Salvini: conquistare l’Emilia per conquistare l’Italia. Guardate la differenza di approccio: il leader della Lega, in qualunque luogo sia, coglie l’occasione per parlare di Emilia Romagna; mentre il Pd si chiude a conclave a Bologna per tre giorni, su un programma di lavoro che si potrebbe svolgere ovunque, da Aosta a Reggio Calabria.

Si capisce che Bonaccini si trovi in un contesto complicato. Di grande pressione “psicologica”, innanzitutto: per chi aveva i pantaloncini corti ai tempi del Pci, dei fasti del “modello emiliano”, dell’inscalfibile zoccolo duro, non è facile sentire sulle proprie spalle il peso di una responsabilità storica: essere additato, in caso di sconfitta, come colui che, dopo 70 anni, ha consegnato l’Emilia alla peggiore destra dell’Italia repubblicana. Ma le maggiori difficoltà sono politiche. Perché sono venuti meno, e non è banale, i due presupposti che, ad esempio, hanno determinato la scelta di andare al voto a gennaio e non a novembre, come pure era possibile: l’idea che il governo giallorosso producesse consenso e l’idea che il governo fosse l’incubatore di una alleanza politica da offrire poi nei territori.

È chiaro che, in questo contesto, Bonaccini è stato costretto a fare di necessità virtù. Anche con una certa abilità, presentandosi come il “sindaco dell’Emilia” e non come il capomastro di un nuovo cantiere politico. Non ci sarà nessuna foto di Bologna o di Reggio o di Modena, come c’è stata la foto di Narni, semplicemente perché quel progetto di politicizzare l’alleanza è già franato. E la campagna sarà tutta sull’Emilia perché il traino nazionale non c’è, anzi rischia di essere un boomerang (vai alla voce, per dirne una: plastic tax). In fondo, visti i tempi è già tanto che i Cinque stelle non presenteranno il loro candidato il che rende la partita comunque aperta. La domanda è: è sufficiente questa virtù a reggere due mesi di campagna elettorale?

Diciamo così: al momento – c’è ancora tempo per correggere l’impostazione – la sensazione è che la campagna emiliana della sinistra, nell’intreccio tra piano locale e piano nazionale, sia un esercizio di equilibrismo nelle famose condizioni date. Ma che a questa storia manchi un “senso”, all’altezza della posta in gioco. Il Pil fotografa l’oggi, la politica dovrebbe indicare il “domani”, ovvero un’idea di cambiamento alternativa al salvinismo. A partire, forse, anche da una lettura più articolata dei dati, perché è vero che tutto funziona meglio che altrove ma è anche vero che anche in Emilia la dinamica economica ha prodotto nuove disuguaglianze e si avverte una certa fatica anche nel mondo della piccola e media impresa. Così come si è allentato quel “modello” che, nell’intreccio di welfare, cooperative, corpi intermedi, teneva assieme il grosso della società su una prospettiva di sviluppo. Anche lì il rischio è che un certo ottimismo sulle realizzazioni possa scatenare, come è accaduto altrove, una reazione sensibile al messaggio del “chiudiamoci e ognuno si difende per sé”, che rappresenterebbe la negazione della storia dell’Emilia Romagna, “comunitaria” prima ancora che “rossa”, fatta di un modello “relazionale” e non “egoistico”. Alle scorse elezioni regionali il crollo della partecipazione fu un indicatore della crisi che poi si manifestò in modo drammatico negli anni successivi. Forse risvegliare quel mondo sarebbe già un primo passo.  

L’HUFFPOST

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