L’eredità di Mario Draghi alla Bce

Tra il 2015 e il 2018 la Bce targata Draghi ha proceduto al primo quantitative easing dell’area euro. La politica di acquisto di titoli ha portato Francoforte a agire attivamente nella finanza continentale per lenire gli effetti della crisi finanziaria del 2010-2011 e della successiva, dilagante ondata di austerità abbattutasi su diversi Paesi (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) che aveva prodotto crollo del Pil, aumento dello spread tra i titoli pubblici e ampie incertezze sul futuro di Eurolandia.

Con anni di ritardo rispetto alle altre banche (Fed, Bank of England, Bank of Japan) la Bce ha saputo andare oltre i semplici strumenti temporanei (Ltro e Tltro) per portare avanti una campagna di acquisto di titoli inaugurata da Draghi con l’obiettivo di rilanciare l’inflazione, abbattere i differenziali di rendimento e dare fiducia ai mercati. Tra marzo 2015 e marzo 2016 gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi dell’area euro sono proceduti a un ritmo di 60 miliardi di euro al mese; tra aprile 2016 e dicembre 2017 il volume è salito a 80 miliardi di dollari, per poi scendere a 30 a partire dallo scorso gennaio.

Complessivamente, la Bce ha investito 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani, tra i più sostenuti, espandendo oltre i 4mila miliardi il suo bilancio. Un diluvio di denaro che ha, senz’altro, ridotto i tassi di sconto, che ha funzionato da antidoto all’austerità e restituito fiducia alle economie.

Draghi ha salvato, di fatto, l’euro dalla Germania ma è ancora presto per dire se sul lungo periodo l’abbia consolidato di fronte alle sue contraddizioni. Solo in maniera interlocutoria il Qe ha raggiunto l’economia reale, non essendo dotato di strumenti di finanziamento diretto della crescita, e la Bce ha dovuto più volte sperare nella funzione supplente della Banca europea degli investimenti (Bei) per il finanziamento di politiche produttive. Inoltre, nonostante le aspre critiche rivolte dalla Germania al Qe, non si può dire che le politiche di Draghi abbiano danneggiato l’egemonia di Berlino o riequilibrato il Vecchio Continente.

Questo, però, più per ragioni politiche che sfuggono al diretto controllo del banchiere romano: Berlino ha “barato” perseverando nella svalutazione interna e nelle sue politiche mercantiliste per favorire le esportazioni nel resto dell’Unione, avvantaggiate dalle favorevoli condizioni finanziarie venutesi a creare nei Paesi in maggior affanno, e al di fuori, sfruttando l’euro svalutato dall’aumento di liquidità. Confermando l’opinione di chi, chi ritiene che l’equilibrio geoeconomico dell’Unione sia praticamente blindato e che “un’Europa diversa non è possibile per la costituzione economica del Paese dominante, la Germania, un Paese strutturalmente mercantilista, e non cooperativo”, come ha affermato l’economista Sergio Cesaratto in un’intervista a Osservatorio Globalizzazione. 

Una Bce balcanizzata

Forte dello standing e dell’autorevolezza conquistati, Draghi ha molto spesso governato la Bce in maniera fortemente originale e personale, non disdegnando di compattare blocchi di Paesi a sostegno delle sue politiche. Più volte la fronda nei suoi confronti è venuta da Jens Weidmann, inflessibile falco tedesco del rigore a capo della Bundesbank, a cui si sono accodati i governatori di Paesi come Olanda e Finlandia.

Draghi, “colomba” per antonomasia, è stato un governatore della Bce decisionista che non ha temuto di affrontare spaccature nel board per portare avanti le sue politiche. Così è stato in occasione del rilancio del quantitative easing di settembre, che lascerà a Christine Lagarde un piano politico ed economico ben definito da governare. Col rischio, però, di non saper affrontare linee di faglia interne sempre più marcate.

Verso il futuro

Il giudizio storico di Draghi sul lungo periodo ruoterà attorno alla risposta alla domanda: è riuscito effettivamente a salvare l’euro? Nel medio periodo, certamente sì: alla Bce serviva una guida forte e capace di sobbarcarsi rischi, all’Unione un pilastro non ammaccato come quello pericolante della Commissione Juncker.

Nel lungo periodo, nulla si può ancora dire. Anche perché la politica monetaria da sola non basta e, anzi, può diventare una trappola. Lo abbiamo visto con il più recente Qe, attivato sull’ondata globale di stimoli monetari divenuta necessaria per evitare una catastrofe borsistica dopo il panico di fine 2018 legato all’allentamento dell’espansione monetaria.

La Bce non ha potuto far altro che conformarsi al “ricatto” delle borse, dopate da anni di finanziamenti a basso costo non trasmessi all’economia reale, trovandosi di fronte a due mali. Da un lato, un brusco tonfo borsistico. Dall’altro, la necessità di pompare aria in una bolla cercando di spostare più in là il problema. Con tutte le incognite del caso.

Draghi, sicuramente, ha messo a nudo la carenza delle classi dirigenti europee. Col suo Qe ha avuto il merito di contrastare, arginandolo, il fronte del rigore, senza però proiettare l’Unione europea verso una nuova stagione di crescita e sviluppo che, è bene ribadirlo, non era il suo compito esclusivo garantire. Va riconosciuta a Draghi una visione di prospettiva mancante ai vari Juncker, Moscovici, Dombrovskis, membri di una Commissione giudicabile come pessima per la gestione delle problematiche politiche e economiche dell’Europa: un modo in più per ricordare che è dall’azione politica lungimirante che una discontinuità netta e consolidata potrà arrivare.

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