Ergastolo ostativo, la corte ha deciso: al mafioso non si può negare «la speranza»

L’ergastolo ostativo era stano infatti introdotto nell’ordinamento italiano nei primi anni Novanta, per rafforzare le misure contro le grandi organizzazioni criminali dopo le stragi con cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad ottobre la Grande Camera della Corte europea ha ritenuto il ricorso inammissibile. La pronuncia si innesta sul ricorso presentato dal noto costituzionalista Valerio Onida per conto di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, omicidio e possesso illegale di armi. Dopo essere stato sottoposto per sei anni al regime di carcere duro regolato dall’articolo 41 bis, Viola ne è uscito e ha chiesto di ottenere un permesso premio e la possibilità di accedere alla liberazione condizionale.

Le sue richieste sono sempre state rifiutate sulla base dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario italiano, secondo il quale per accedere a permessi premio o misure alternative al carcere i reclusi per questi tipi di reato devono prima collaborare con i magistrati, confessando le proprie responsabilità e contribuendo alle indagini nei confronti di altri. Viola invece si è sempre dichiarato innocente. Dopo il ricorso presentato da Onida, la Corte europea ha stabilito che l’ergastolo ostativo, cioè «il fine pena mai», non è compatibile con l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani. Anche l’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene devono tendere «alla rieducazione del condannato». Nel 2003 la Corte Costituzionale italiana aveva difeso l’ergastolo ostativo, sostenendo che la mancata collaborazione con la giustizia sia una scelta del condannato. Pochi giorni fa, però, il massimo tribunale italiano ha dichiarato l’ergastolo ostativo sancito dall’articolo 4 bis incostituzionale, e ha affermato che anche ai mafiosi che non collaborano possono essere concessi permessi premio. Una Corte però spaccata poiché 7 giudici sarebbero stati contrati e 8 favorevoli.

Quel che è certo è che la procedura è complessa: devi aver scontato almeno 10 anni di carcere, deve esserci il parere favorevole dell’assistente sociale, del Giudice del Tribunale di Sorveglianza, devono essere sentiti i pareri dei magistrati (che potranno ricorrere contro un parere favorevole non condiviso, fino in Cassazione), della procura antimafia, del Prefetto. Se sono tutti concordi sul fatto che il detenuto si è comportato in modo esemplare, che non ha più contatti con le cosche ed ha manifestato la volontà di redimersi, allora potrà ottenere un permesso premio. I magistrati che da 40 anni combattono mafia camorra e ‘ndrangheta sostengono che non c’è un solo detenuto per mafia che abbia mai avuto una sanzione, sono tutti detenuti modello, proprio per continuare a mantenere i contatti. Spiegano che è molto difficile provare la scissione con la cosca di appartenenza, e quando emerge è per puro caso, e all’interno di altre indagini, e i contatti spesso vengono mantenuti tramite gli avvocati, i cui colloqui non sono monitorabili.

Difficile prendere posizione, si può prendere atto che questa pronuncia della Corte è stata presa sul serio, mentre tutte le altre che riguardano le condizioni disumane delle carceri italiane no, e continuiamo a pagare multe come se nulla fosse. La pena ha una funzione riabilitativa, e la riabilitazione passa attraverso il lavoro — lo dice la legge. Il nostro sistema, molto sensibile ai diritti umani, non garantisce a tutti i carcerati, che una volta scontata la pena usciranno, la possibilità di lavorare durante il periodo di detenzione. Infatti il 70% torna a delinquere.

CORRIERE.IT

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