Non c’entra l’accordo col Pd. Ecco perché il grillismo perde i pezzi

di MICHELE BRAMBILLA

Tutto si consuma in modo velocissimo e imprevedibile. Il governo gialloverde – “del cambiamento”, “di svolta”, “dei cittadini” – è durato poco più di un anno. Matteo Salvini a inizio agosto sembrava il padrone d’Italia; a fine agosto un uomo sconfitto; a fine ottobre è di nuovo al comando. Giuseppe Conte in pochi mesi è passato da prestanome a grande leader e ora a dead man walking. Matteo Renzi, della cui esistenza ci si era quasi dimenticati, è risorto e ora è lui a dare le carte. Un solo dato è costante e immutabile: il calo, anzi il crollo dei Cinque Stelle dalla loro presa del potere in poi.

La loro avanzata, cominciata una decina di anni fa con i Vaffa Day, pareva inarrestabile. Nel 2013 – con il 25,6 per cento – si erano imposti come primo partito alle elezioni politiche. Non erano però andati al governo, in nome di una purezza che impediva loro qualsiasi alleanza. Alle politiche di cinque anni dopo – 4 marzo 2018 – hanno stravinto con il 32,7 per cento e siccome va bene essere puri ma fino a un certo punto, si sono alleati con la Lega e sono infine entrati da padroni di casa in quel Palazzo che volevano fortissimamente conquistare per radicalmente trasformare. È lì che la loro avanzata ha cominciato ad assomigliare a quella di Napoleone in Russia. Al primo voto con forte valenza politica – le Europee di quest’anno – hanno praticamente dimezzato i voti: 17,1 per cento. E ora il tracollo umbro, con il partito al 7,4 per cento e il candidato presidente staccato di venti punti dalla vincitrice leghista.

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