Gli effetti speciali dell’estate politica

Ci vorrà tempo prima che si capisca per quale motivo Salvini si sia lanciato nell’avventura dell’8 agosto. Avventura che non è stata quella relativa all’apertura della crisi ma, prim’ancora, l’aver fatto credere che avesse la possibilità di ottenere le elezioni anticipate. Da chi? Il leader leghista si sarà pur accorto del fatto che, nonostante i sondaggi lo incoraggiassero, in metà del Paese montava contro di lui un’avversione sempre più radicale. Poteva costatare come ormai fossero usciti allo scoperto i suoi incontrovertibili legami con la Russia di Putin. Sapeva che all’interno dell’attuale Parlamento avrebbe potuto contare esclusivamente sulla lealtà di Fratelli d’Italia e che la disponibilità nei suoi confronti di Forza Italia era assai dubbia. Anzi c’è il sospetto che i seguaci di Berlusconi si siano schierati in suo sostegno soltanto quando sono stati sicuri che la partita era persa in partenza. Adesso è addirittura possibile che una parte dei parlamentari di Forza Italia (quasi tutti, forse) si disponga a sostegno di un eventuale esecutivo grillo-dem. E comunque, anche nel caso Berlusconi fosse stato davvero convinto a sostenere la corsa di Salvini verso le elezioni anticipate, i numeri per assecondare in Parlamento questa iniziativa non c’erano.

Sono riconducibili agli effetti del proporzionale anche le molteplici giravolte del M5S. In campagna elettorale avevano detto che non era importante annunciare con chi, in caso di successo, avrebbero eventualmente governato. Un anno fa scelsero Salvini. A fine maggio 2019, la catastrofe alle elezioni europee. Poi la crisi. Adesso si sono aggrappati al salvagente che è stato loro lanciato da Matteo Renzi. A questo punto non è più impensabile che restino al governo — con Zingaretti o con il redivivo Salvini — per l’intera legislatura. E persino che si riprendano elettoralmente, aiutati oltreché da coloro che sono rimasti sempre fedeli, dalle correnti maggiormente impegnate della magistratura. Ma anche da un fino a ieri imprevedibile entusiasmo da parte di molti ex antipatizzanti, dal rispetto dell’establishment del Paese e forse anche di quello europeo. Si può dire che, grazie all’innesto di Giuseppe Conte, siano entrati a far parte, con annesso coro di laudatores, della più collaudata tradizione partitica italiana.

Il vero successo è quello del Pd che potrebbe tornare al governo — o quantomeno, ciò che più gli preme, nell’area governativa — in virtù di uno spettacolare dispiegamento tattico. Da tempo il Pd si è disabituato alla conquista del potere per via elettorale. In compenso i suoi dirigenti sono diventati maestri in quel gioco parlamentare che consente di rientrare sempre nella cabina di comando sfruttando le debolezze o le incapacità altrui. Dopo la sconfitta del 4 marzo 2018, il partito si è diviso nella «stupida polemica» (la definizione è di Adriano Sofri) tra coloro che — con la missione di sbarrare il passo alla Lega — volevano subito appoggiare un esecutivo dei Cinque Stelle e gli altri, la maggioranza, che sostenevano la non praticabilità di tale opzione, quantomeno nell’attuale legislatura. Appena però è scoccata l’ora della crisi di governo, Carlo Calenda si è trovato solo a sostenere quella che fino a qualche minuto prima era stata la posizione unanime del vertice del partito. Ora può darsi che Calenda sia un ingenuo e che non si renda conto d’ essere diventato un’inconsapevole pedina nelle mani di Salvini, ma davvero colpisce la compattezza nella giravolta di tutti gli altri, l’assenza nell’intera sinistra di una pur piccola area del dubbio. E colpisce soprattutto che il segretario Nicola Zingaretti, non abbia avvertito l’esigenza di spiegare in modo non semplicistico perché, nel volgere di poche ore, avrebbe cambiato idea. Difficile immaginare non sapesse prima dell’8 agosto che, nel caso di una crisi di governo e di elezioni anticipate, avrebbe dovuto affrontare l’onda leghista. E allora perché non dire mesi fa che, pur di evitare le elezioni, sarebbe stato disponibile ad abbracciare il M5S? Se avesse tenuto il punto sul sì alle elezioni, Zingaretti avrebbe potuto proporre al Movimento 5 Stelle un fronte elettorale antileghista o quantomeno un accordo di desistenza. Ma il segretario del Pd sembra aver (certo inconsapevolmente) introiettato quel modo di pensare per il quale da almeno due decenni la sinistra italiana ha perso fiducia nella propria capacità di affrontare le elezioni e preferisce di gran lunga il gioco parlamentare. Tant’è che anche nel caso di ribaltoni o simili quando li ha orditi la destra si ponevano l’obiettivo di giungere al voto in tempi ravvicinati (2008); nel caso in cui li ha fatti la sinistra, si proponevano esplicitamente il prolungamento della legislatura. Con governi dalle più svariate denominazioni.

Dicevamo all’inizio che questo genere di problemi è generato in massima parte dal proporzionale proprio perché tale sistema induce ad alleanze innaturali tra partiti che si sono presentati agli elettori nei panni di irriducibili avversari. Fu così anche nella Prima Repubblica, ma i recinti della Guerra fredda — che tenevano fuori dall’area della legittimità comunisti (inizialmente anche socialisti) ed ex fascisti — consentirono competizioni un po’ meno dilanianti. La dose di caos in più è tipica dei momenti in cui si passa dal maggioritario al proporzionale. Ad esempio il 16 novembre del 1919 quando, appunto, si ebbe questo cambiamento di metodo elettorale e, a sorpresa, vinsero due partiti «antisistema», socialisti e popolari, che ottennero addirittura la maggioranza dei seggi parlamentari (256 su 508). I popolari, che di seggi ne avevano conquistati 100, si lasciarono progressivamente integrare, ma le ripercussioni di quel marasma furono tali che — anche per le complicazioni del primo dopoguerra — non fu mai conquistata una reale stabilità. E, dopo pochi anni, ci pensò un terzo partito «antisistema», quello fascista, a eliminare il proporzionale. Per poi abolire anche le libere elezioni.

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