I moderati senza casa e il centro che non c’è

Il senso di smarrimento si avverte nel linguaggio, nell’evocazione di cose come il «centrodestra» o il «centrosinistra» o la «vocazione maggioritaria»: cose finite, proprie di un’altra, precedente, stagione, consegnate definitivamente alla storia. I politici non vanno mai sottovalutati. In genere (con le dovute eccezioni, si capisce), sono più svegli di quanto molti credano, sono perfettamente in grado di cogliere al volo certe novità. Solo che, per lo più, pensano (con ragione) che molti loro seguaci non siano altrettanto pronti. Per questo, i politici preferiscono continuare a usare parole d’ordine antiche e ad evocare strategie del passato che pure, in cuor loro, sanno benissimo essere ormai prive di significato.

Il Pd, per esempio, continua a sventolare una bandiera del tempo che fu , continua a raccontarci/raccontarsi che arriverà il giorno della riscossa del «centrosinistra». Ma che cosa potrebbe mai essere, in regime di proporzionale, questo centrosinistra tanto evocato? Molti dirigenti del Pd continuano a parlare come se nulla fosse cambiato, come se ci fosse ancora il sistema elettorale maggioritario di qualche tempo fa. Allora sì che si poteva contrapporre il centrosinistra al centrodestra. Ora non più. Come ha scritto Paolo Mieli (Corriere, 30 maggio), il vero problema di Nicola Zingaretti è quello di decidere se contatti e trattative con i Cinque Stelle dovranno essere fatti alla luce del sole oppure per via riservata, al riparo dalla pubblicità.

C’è poi la questione del partito di centro evocato da Carlo Calenda (e non solo da lui). Come Mieli ha osservato , non è plausibile un’operazione a tavolino quale l’ex ministro dello sviluppo immagina: mettere in piedi un partito di centro (una sorta di aspiratore di elettori detti «moderati») con il sostegno, e magari anche la supervisione, di Zingaretti. Forse Calenda non se lo ricorda ma quella di escogitare marchingegni per acchiappare i moderati (anzi: i «liberali», qualunque cosa si intendesse allora con questa parola) è una antica tentazione/vocazione degli antenati di Zingaretti, i comunisti. Fin dai tempi di Togliatti. È una strategia, insomma, che sa di muffa.

È nella logica imposta dall’attuale sistema elettorale che, prima o poi, un partito neo-centrista nasca (dallo sfaldamento di Forza Italia e da scissioni nel Pd) . Ma non potrebbe mai essere la canna da pesca usata dal Pd per prendere all’amo «pesci moderati». Come tutte le cose serie che avvengono in politica, un partito neocentrista potrebbe nascere solo dallo scontro, dal conflitto (con i sovranisti/nazionalisti ma anche con il Pd).

Checché ne dicano alcuni, l’attuale polarizzazione politica non è necessariamente destinata a durare ancora a lungo. Non tutti gli italiani sono in grado di trovare, nel menu politico del giorno, un piatto che li soddisfi. Esiste, plausibilmente, lo spazio elettorale che serve a un partito neocentrista (a patto che esso sappia fare una proposta credibile). Per giunta, in regime di proporzionale un tale partito è necessario: deve assorbire e neutralizzare le spinte delle estreme, dei partiti antisistema. Ammesso che nasca, esso potrebbe durare solo a una condizione: se, catturando molti consensi (cosa fattibile, data la grande mobilità degli elettori), riuscisse a impadronirsi delle chiavi della politica italiana, se riuscisse a strappare il pallino dalle mani del vincitore di oggi (la Lega) tenendolo per sé. Ciò non significa affatto che il partito neocentrista potrebbe sensatamente aspirare a diventare esso stesso maggioranza. Significa però che dovrebbe essere l’ago della bilancia, dovrebbe poter decidere di volta in volta, e a seconda delle circostanze, se allearsi con i sovranisti/nazionalisti o con la sinistra Dem . Avrebbe una grande forza contrattuale, infatti, solo se, trattando con l’uno o con l’altro, fosse sempre in grado di minacciare credibilmente di cambiare partner.

È in effetti una parabola amara. C’è stato un tempo in cui un certo numero di italiani (compreso chi scrive) , auspicava la fine del partito di centro — che allora accusavamo di immobilismo — e la sua sostituzione con un bipolarismo (centrosinistra vs. centrodestra) favorito e protetto dal sistema maggioritario. La classe politica , e la più generale classe dirigente, non se la sono sentita di perseverare nell’esperimento maggioritario. Siamo tornati alla casella di partenza, siamo tornati alla proporzionale. Chi scrive pensa che sia un vero peccato. Ma pensa anche che in tali condizioni un partito di centro autentico (ossia creato dal e nel conflitto) sia indispensabile. Si chiama, anche in politica, fare di necessità virtù.

CORRIERE.IT

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