Pd, al summit dei renziani lo spettro della scissione. Minniti diserta il conclave

carlo bertini
roma

In un conclave dove si affaccia lo spettro della scissione per creare una nuova creatura, «se il congresso lo vince Zingaretti e si torna al Pds mi chiedo che senso abbia restare nel Pd», lancia la provocazione Roberto Giachetti incassando uno scrosciante applauso, normale che i renziani vogliano provare a blindarsi con un candidato di ferro: in continuità con la linea dei mille giorni di governo Renzi. Ma l’interessato non si fa vedere, lasciando tutti con un palmo di naso.

Magari Marco Minniti cambierà idea all’ultimo momento, ma «a quanto pare non viene e così ci fa fare un passaggio a vuoto», sbuffa uno dei vari renziani di rito fiorentino che non lo amano troppo, ma che si allineerà per sostenerlo al congresso. Salsomaggiore, sulle chat dei seguaci dell’ex leader, vanno in onda i commenti di chi attendeva l’arrivo del candidato sabato mattina. Avrebbe dovuto parlare prima della chiusura di Renzi all’ora di pranzo, che darà la linea ai trecento sindaci e amministratori convenuti nella storica località termale, teatro di tanti summit della prima repubblica.

 

Ma a sorpresa, dopo aver detto che sarebbe intervenuto in prima persona, Minniti pare abbia deciso che sia meglio disertare il conclave. «Sta valutando, ma se non va non è per atto di scortesia: non avendo sciolto la riserva, non vuole condizionare una discussione di un’area del Pd», spiega il suo braccio destro Nicola Latorre. «Se avesse già deciso la candidatura sarebbe andato, come è andato da Franceschini a Cortona e come sarebbe andato da Zingaretti a Piazza Grande se fosse stato invitato». Peccato che Minniti abbia in qualche modo sciolto la riserva, annunciando all’ex jena Lucci che al 51% si candiderà. Tradotto, ha già deciso, ma lo dirà in una modalità pare inedita rispetto al passato.

 

 

La linea è profilare la sua candidatura come il più possibile unitaria: per questo i renziani si stizziscono, «evidentemente vuole fare il candidato di tutti», sibilano delusi. Sì, perché il problema è che molti dei trecento convenuti a Salsomaggiore avrebbero gradito che invece Minniti arrivasse in pompa magna da candidato, proprio per potergli dare la benedizione e partire vento in poppa verso la sfida congressuale. Renzi – con cui l’ex ministro degli Interni, ha di questi tempi un «ottimo rapporto» – la spiega così, dando inizio alla seduta. «Marco non credo che venga. La sua riserva sta durando parecchio? Questo chiedetelo a lui», taglia corto, senza scomporsi. Come a dire magari ci medita troppo, ma sono affari suoi.

 

Al Teatro Nuovo sono in trecento, il candidato Matteo Richetti non si fa vedere, ma Teresa Bellanova (che scalda i cuori del popolo della Leopolda e che molti vorrebbero vedere candidata) è in prima fila come tutti i big della corrente, da Guerini in poi. Ma il congresso appassiona fino ad un certo punto. Il nuovo partito da plasmare sulla leadership inossidabile di Renzi è il convitato di pietra di questo summit, per ora fa premio questa iniziativa dei comitati di resistenza civile, seppur non alternativi al Pd, poi si vedrà. «Se vince il congresso la linea di chi ci vuol far tornare al Pds io, a differenza di loro, non rimango solo per bombardare chi ha vinto. E quindi non escludo che in quel caso potrei togliere il disturbo», è l’avvertimento di Giachetti.

 

L’ex Dc Beppe Fioroni, dopo aver letto l’intervista di Zingaretti a La Stampa , non è da meno: «E’ chiaro che lui vuole aggiungere una S al nome Pd e che i socialismi in Europa sono ormai delle salme in avanzato stato di composizione». Tradotto da un renziano in sala, «per breve tempo si va su Minniti senza troppi entusiasmi e poi si vedrà». L’ex ministro dal canto suo vuole apparire come più concentrato sul progetto che sulla sfida tra leader e alza il livello del contendere: «Me o Zingaretti? Il punto non è fare la competizione uno sull’altro, ma riportare le persone al Pd», dice ecumenico.

LA STAMPA

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