Il prezzo nascosto che tutti stanno pagando

L’Italia non era mai passata di qua, anche se in anni recenti ha vissuto episodi simili. Non è la prima volta che il Paese si trova preso nelle rapide dei mercati: era successo in un paio di circostanze negli anni 90 e poi di nuovo in maniera più traumatica all’inizio di questo decennio. In confronto a quelle esperienze, le tensioni che stanno venendo a galla a cicli alterni da maggio scorso sono poca cosa, per il momento. I rendimenti dei titoli di Stato non sono neanche vicini ai livelli del 2011; l’economia non rivive la profonda recessione del 2012 e il deficit pubblico è più basso; le imprese vantano meno debiti e più esportazioni, le banche sono un po’ più robuste, i lavoratori occupati circa un milione in più. Non ci sarebbero ragioni economiche per rischiare un infarto finanziario proprio adesso.

Qui però c’è l’altra differenza rispetto alle tempeste del passato, quella che rende unico il momento attuale. Questa volta siamo soli. Nessun altro Paese europeo è stato anche solo lambito dalle stesse correnti, neanche i più fragili. Il rendimento in più rispetto al Portogallo che lo Stato italiano deve offrire per farsi prestare denaro è maggiore, stamattina, a quello che separava l’Italia dalla Germania cinque mesi fa.

E ieri i titoli a un anno del governo di Roma erano allineati a quelli di Atene. L’Italia si trova sotto un temporale mentre nel resto d’Europa splende il sole, per quanto tiepido sia. È innegabile che le cause di quanto accade siano profondamente politiche, e qui ognuno avrà le proprie idee.

Pochi sono disposti a credere che sia un «complotto» ai nostri danni (persino Luigi Di Maio, mai avaro di teorie e sospetti, ha scartato l’ipotesi). Qualcuno nel governo pensa che gli investitori darebbero più fiducia all’Italia, se la risposta di Bruxelles ai piani del governo non fosse stata così negativa e sprezzante; se Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, non avesse detto che l’Italia rischia di diventare una nuova Grecia malgrado le evidenti differenze. Altri ancora sospettano invece che i gestori dei miliardi dei fondi pensione giapponesi o delle università californiane non sappiano neanche chi sia il commissario Ue Pierre Moscovici; in ogni caso non gli danno peso, ma hanno venduto carta italiana in questi giorni per ragioni diverse: non capiscono chi comandi a Roma e, chiunque egli sia, perché cambi idea così talmente tanto spesso che a ieri non esisteva un piano di bilancio messo nero su bianco. Questi investitori non capiscono come facciano a tornare i conti con tutte quelle promesse di spesa, sia pure per vere emergenze sociali come la lotta alla povertà. Né si fidano dell’impegno del governo a restare nell’euro e a prevenire anche solo il rischio di doverne uscire a forza: il premier e il ministro dell’Economia hanno dato la loro parola, è vero, ma ormai gli investitori sanno che quei due contano relativamente. Le due persone che l’Italia manda in giro in Europa e nel mondo a rappresentarla hanno poca voce in capitolo a Roma, e chi ne ha non si espone all’estero.

Tutto questo non rafforza la voce italiana a Bruxelles, anche quando avremmo argomenti validi e condivisi nel Paese. Avrebbe senso chiedere in Europa un impegno per favorire gli investimenti in deficit, se rafforzano davvero la capacità di un Paese di crescere. Avrebbe senso chiedere che altri contribuiscano un po’ di più a riequilibrare l’intera area euro: difficile capire perché la Germania a metà 2018 debba mantenere un surplus di bilancio al 2,7% del reddito nazionale, mentre l’ultradestra di Alternative für Deutschland scala i sondaggi fino al secondo posto ed è sopra ai livelli che aveva la Lega in Italia il 4 marzo. Avrebbe senso chiedere il rispetto degli impegni presi dagli altri riguardo alla garanzia comune europea sui depositi bancari, dopo che gli istituti italiani hanno lavorato tanto per risanarsi.

Un problema è che nessuno vuole ascoltare chi accusa Bruxelles di «terrorismo», come fa Di Maio. Nessuno vuole parlare con chi insulta gli interlocutori come fa il vicepremier Matteo Salvini («parlo solo con chi è sobrio», rivolto a Juncker) o proclama in piazza «me ne frego», quasi che nella storia frasi del genere abbiano portato fortuna all’Italia. C’è poi un altro problema: il principio numero uno dell’Unione europea è non cedere ai ricatti. Lo si è visto con la Grecia nel 2015, lo si vede con Brexit oggi. L’Europa non esiste se è ricattabile. Niente la coalizza e la irrigidisce come questa minaccia. E qui non sono in gioco solo le ragioni o i torti, ma da che parte sta il potere e chi ha da perdere di più.

Soprattutto per questo il governo deve fare attenzione ai suoi elettori, e a anche a quelli che hanno votato per gli altri. L’enorme aumento dei rendimenti dei titoli di Stato alza i costi per le banche e si sta trasformando in tassi più alti ai mutui delle famiglie e ai prestiti delle imprese italiane, non delle loro concorrenti europee: è una stretta al credito proprio mentre l’economia nazionale frena. La caduta di valore di Piazza Affari, dei titoli di Stato e dei bond bancari riduce di centinaia di miliardi il valore dei risparmi di milioni di famiglie nel Paese. L’aumento dei rendimenti obbliga i contribuenti italiani a pagare miliardi di tasse in più del previsto per coprire gli interessi sul debito. Per non parlare del blocco dei conti bancari, dei fallimenti a catena e dell’impoverimento collettivo che un’uscita dall’euro porterebbe con sé.

Ogni nuovo governo, quando arriva, ha diritto di tentare una propria strada diversa da chi l’ha preceduto. Basta che non lo faccia a spese di coloro che dovrebbe rappresentare.

CORRIERE.IT

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