Chiusura domenicale, il futuro (magro) del lavoro

Se domani trovassimo tutte le vetrine chiuse, le librerie sbarrate, i centri commerciali deserti, la nostra vita sarebbe migliore? E per i commessi significherebbe un giorno di riposo in più, o il rischio di un riposo a tempo indeterminato causa perdita del posto?

La questione della chiusura domenicale dovrebbe essere sottratta all’ideologia, e lasciata alla libera contrattazione tra commercianti e dipendenti. Invece i Cinque Stelle – la cui impronta sul governo si nota meno della propaganda di Salvini ma è più profonda – l’hanno affrontata proprio con l’approccio tipico della loro ideologia. No all’Expo. No alle Olimpiadi a Roma, e quindi ai tre miliardi di euro del Comitato olimpico internazionale, che alle infrastrutture della capitale più disastrata d’Europa avrebbero fatto abbastanza comodo. No all’alta velocità, non solo tra Torino e Lione ma pure tra Brescia e Trieste. No al gasdotto, no ai grandi cantieri, no all’apertura domenicale.

E’ evidente che c’è un tratto comune che lega tutti questi punti. L’idea di fondo è che ormai la ricchezza non si crea più con il lavoro. I soldi si fanno con altri soldi. Quindi, i soldi ci sono. Basta trovarli. Prenderli a chi li ha. E redistribuirli. Non è un ragionamento peregrino. Anzi, all’apparenza è affascinante e consolatorio (anche se in realtà dannoso). In effetti, la maggioranza dei lavori che conosciamo tra breve non esisterà più; e poco importa se a cancellarli sarà la rete, vitello d’oro grillino.

Negli ultimi quarant’anni l’automazione ha distrutto il lavoro operaio; oggi la rivoluzione digitale sta distruggendo il lavoro dei bancari, degli assicurativi, degli agenti di viaggio. Per restare al commercio, intere categorie rischiano di essere messe fuori mercato dal web: grossisti, rappresentanti, trasportatori, commessi sono sempre più spesso sostituiti da un clic. Tesori di esperienze e competenze potrebbero in poco tempo essere spazzati via. Un disastro sociale che, però, richiede un sforzo di inventiva, di diversificazione, insomma di lavoro; altro che serrande abbassate la domenica. Senza considerare che il denaro speso nella bottega sotto casa resta nella comunità; gli outlet se non altro pagano stipendi e oneri di urbanizzazione ai Comuni; i soldi dati a Jeff Bezos restano a lui. Il reddito di cittadinanza, nella versione primigenia (quindi non quella cui stanno faticosamente lavorando i tecnici del ministero dell’Economia), dovrebbe essere il risarcimento per la distruzione del lavoro.

Lo Stato non garantisce il lavoro, che non c’è più, ma il reddito. Non è chiaro se rappresenti la soluzione ideale, o piuttosto la toppa su un sistema che non funziona. L’unica cosa sicura è che per finanziarlo occorre una grande riforma fiscale, non soltanto in Italia, che recuperi le risorse là dove ci sono: tassando i padroni della rete, i giganti della finanza, i signori dei paradisi fiscali. Nell’attesa, il reddito di cittadinanza – sia pure nella versione soft consentita dalle disastrate finanze statali – lo pagheremo noi contribuenti. Anche perché qualsiasi timido tentativo di far pagare qualcosa ai padroni della rete, come il voto dell’Europarlamento sui diritti d’autore, viene considerato da Di Maio “una vergogna”. In effetti, di denaro in questi anni ne è stato stampato molto. Dalla Bce, dalle varie banche centrali. La gran parte della ricchezza delle nazioni, quasi tre secoli dopo Adam Smith, è di carta, o meglio immaginaria.

Ma quel denaro serve a sostenere il famigerato debito pubblico, che non solo Grillo ma pure qualche economista della Lega vagheggiava di abbattere, trascurando il fatto che così si manderebbero in rovina proprio i risparmiatori italiani. Un vero “governo di cambiamento” dovrebbe darsi come grande obiettivo ridurre la frattura tra ricchezza e lavoro. Far propria la lezione che Papa Francesco ha affidato all’intervista al Sole 24 Ore: lottare contro la finanziarizzazione dell’economia. Contro quello che Viviane Forrester ha definito “l’orrore economico”: il lavoro ridotto a problema, per cui se un’azienda licenzia le sue quotazioni in borsa salgono, i suoi azionisti si arricchiscono. Ma il mercato si può riformare; non ignorare, facendo come se non ci fosse. Si può e si deve lavorare meglio, con salari migliori; non lavorare meno. Domeniche comprese.

CORRIERE.IT

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