Da lupo ad agnello

Luigi Di Maio si arrende all’evidenza e al buon senso. In poche ore si rimangia alcuni dei punti forti della sua azione, si fa per dire, dei primi cento giorni di governo.

Sparisce «l’obbligo flessibile» per le vaccinazioni, che resteranno obbligatorie per tutti i bambini così come chiesto all’unisono dalla comunità scientifica, dai dirigenti scolastici e dalle opposizioni; l’Ilva andrà agli indiani della Arcelor Mittal, nonostante nei giorni scorsi il contratto fosse stato da lui frettolosamente e incautamente definito «illegittimo, un omicidio di Stato»; e infine, ma cosa più importante, sui conti pubblici Di Maio accetta le regole dell’Europa e si impegna a non sforare i parametri.

Che cosa abbia convinto il lupo a diventare agnello non lo sappiamo. Probabilmente qualcuno gli ha fatto sapere con una certa forza che la tempesta perfetta che si stava per abbattere sull’Italia (vedi lo spread nervoso, attorno ai trecento punti) non era frutto di complotti politici, ma dei suoi inquietanti annunci sull’imminente manovra economica che, promettendo di tutto e di più, stavano per fare scappare gli investitori e i risparmiatori.

La montagna del cambiamento si appresta quindi a partorire un topolino. Il perché è ovvio, ed è il vero tallone d’Achille di questo governo: mettendo insieme due programmi elettorali inconciliabili – quello dei Cinquestelle e quello della Lega – non si potrà realizzare né l’uno né l’altro, a meno di non volere far saltare il banco. Non ci sarà quindi il reddito di cittadinanza, ma solo il finanziamento per riorganizzare gli uffici di collocamento. Non la flat tax, ma soltanto un piccolo sconto alle partite Iva e ai liberi professionisti; non la pace fiscale ma, probabilmente, la proroga di meccanismi di conciliazione già in atto. In sintesi, nulla di quello promesso agli elettori.

È finito il tempo della propaganda? Speriamo, perché questi primi, inconcludenti, cento giorni di governo Conte non solo sono stati una palla al piede per la crescita dell’Italia, ma rischiano ora di ingabbiare anche la Lega di Salvini. Che aspettiamo con fiducia al varco del taglio delle pensioni, ultimo baluardo della follia grillina come ha confermato anche ieri Di Maio.

Ps: ieri Il Giornale, fatto storico, non era in edicola per uno sciopero dei suoi giornalisti. Argomento della protesta l’annuncio da parte dell’editore di un «piano di solidarietà» per contenere i costi. Parliamo di uno strumento che comporta sacrifici economici già in atto da tempo nella stragrande maggioranza dei quotidiani e dei periodici italiani. Purtroppo in editoria non esistono più isole felici né oasi protette e siamo chiamati a navigare in un mare minaccioso solo con le nostre forze.

Spiace, ma è la pura verità. Terremo la barra diritta senza paura, sapendo che dopo ogni tempesta ritorna la quiete.

Scusate per l’interruzione, siamo e rimarremo molto a lungo in onda.

IL GIORNALE

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