La Lega supera quota 31% e toglie consensi anche ai 5 Stelle

Non era mai capitato che a meno di quattro mesi di distanza dalle elezioni si manifestasse una mobilità elettorale tale da far quasi raddoppiare i consensi per una forza politica che è uscita al terzo posto dalle urne ed oggi è prima. Negli ultimo 30 anni tuttalpiù si era verificato il classico bandwagon, più o meno intenso. E negli anni precedenti il voto era una sorta di «atto di fede» e il consenso per i partiti si modificava di poco. Il sondaggio odierno fa registrare un ulteriore avanzamento della Lega di Salvini che consolida il primato attestandosi al 31,2% delle preferenze, seguita dal M5S, sostanzialmente stabile al 29,8%, dal Pd con il 18,9% (+0,3%) e Forza Italia che fa segnare un ulteriore lieve arretramento fermandosi all’8,3%.

Niente di eclatante rispetto alla rilevazione di due settimane fa: infatti, con l’eccezione della Lega (+1,1%), i singoli partiti fanno segnare variazioni di qualche decimale. Ma se confrontiamo le intenzioni di voto con i risultati elettorali del 4 marzo emergono cambiamenti importanti, oltre alla già citata imponente crescita della Lega: innanzitutto l’aumento dell’area dell’indecisione e dell’astensione, composta da elettori delusi, che aumenta del 5,5%; in secondo luogo la flessione di 2,9% del M5s, trionfatore alle elezioni, e quella ancor più significativa di Forza Italia, che perde 5,7%, di Fratelli d’Italia che si è quasi dimezzata, passando dal 4,3% al 2,3%, di Liberi e uguali che perde un terzo dell’elettorato (da 3,4% a 2,3%) e di Noi con l’Italia scesa dall’1,3% allo 0,4%. Al contrario Pd e Più Europa aumentano di 0,2%, mantenendosi sostanzialmente sui valori ottenuti alle politiche.

L’analisi dei flussi elettorali evidenzia l’elevata fedeltà dell’elettorato leghista (91% conferma il proprio voto) e la forte capacità di attrazione di nuovi elettori: quasi la metà di coloro che oggi voterebbero per il partito di Salvini provengono da altri partiti, in particolare per il 23% dagli (ex?) alleati di centrodestra (18% da FI e 5% dagli altri), il 10% dagli alleati di governo e il 9% da elettori che alle politiche avevano disertato le urne ma oggi ritornerebbero a votare scegliendo la Lega. Tre elettori pentastellati su quattro confermerebbero il proprio voto al Movimento, i delusi propendono per l’astensione (13%) e la Lega (9%), ma non per il Pd (1%) e i voti in ingresso provengono prevalentemente dal centrodestra, mentre sembra essersi arrestata la capacità di attrarre consenso da sinistra e dall’astensione. La tenuta del Pd dipende dalla elevata fedeltà di voto (80%), e da una compensazione tra uscite (prevalentemente verso l’astensione: 13%) e nuovi ingressi, soprattutto da centrosinistra e sinistra, mentre il rientro dal M5s è marginale. Infine, meno di un elettore su due di FI (48%) continua a votare per il partito di Berlusconi, un terzo abbondante sceglie la Lega e il 10% si astiene.

La Lega consolida il proprio consenso presso tutti quei segmenti sociali che l’hanno scelta il 4 marzo e aumenta in modo particolare tra i ceti più popolari, le persone meno istruite, casalinghe, pensionati e disoccupati e tra i cattolici che partecipano saltuariamente alle funzioni religiose. Il M5S flette prevalentemente tra gli elettori meno giovani (presso i quali era già più debole), nella classe direttiva, tra i lavoratori autonomi, gli studenti, i pensionati e tra i cattolici con frequenza settimanale alla messa. Insomma, è il momento della Lega e la sua forza dipende soprattutto dalla sostanziale continuità nella strategia comunicativa di Salvini rispetto alla campagna elettorale, una strategia basata su un’accurata scelta di temi sensibili (i migranti, le responsabilità dell’Europa, la legittima difesa, la rottamazione delle cartelle esattoriali, l’uso del contante, ecc.), su toni aggressivi (peraltro due italiani su tre ritengono che sia giusto che i politici utilizzino un linguaggio crudo e brutale per dire le cose senza tanti giri di parole) nei confronti di avversari politici, esponenti delle istituzioni nazionali ed europee (il presidente Macron su tutti), personaggi pubblici (da Balotelli a Saviano), sull’incessante appello a «ciò che vogliono gli italiani». Il leader leghista pur occupando un’importante carica istituzionale, si è dunque sottratto al processo di istituzionalizzazione, non a caso continua a esibire accuratamente sulla giacca il simbolo di partito e sarà protagonista del tradizionale raduno di Pontida di domani con al centro lo slogan «il buonsenso al governo».

È una strategia che si può permettere grazie alla complementarietà che rappresenta il tratto distintivo del governo: complementarietà degli elettorati della maggioranza, dei temi previsti nel contratto, della personalità e dello stile comunicativo di Conte, Di Maio e Salvini, cioè di una sorta di tridente, per usare una metafora calcistica, che garantisce una grande popolarità all’esecutivo. È un gioco di equilibri: la ricchezza delle diversità può consentire al governo di mantenere un consenso duraturo oppure di minare la coesione e veder precipitare il sostegno. Non è una situazione inedita: il primo governo Berlusconi nel 1994 riuscì a mettere insieme la destra di Fini e la Lega Nord di Bossi. Non durò molto, ma oggi il contesto è molto diverso e appare difficile prevedere se per il governo Conte prevarrà l’affermazione di Tucidide («la storia si ripete») o quella di Vilfredo Pareto («la storia non si ripete mai»).

CORRIERE.IT

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