Radicalismi opposti, i rischi di una gara

Due radicalismi si sommano? O uno elide l’altro? È questo il grande mistero politico che avvolge il futuro, il successo e la durata del governo giallo-verde. E siccome è una situazione senza precedenti, fare previsioni è difficile. A giudicare dal voto amministrativo di domenica, per quanto il test sia piccolo e parziale, parrebbe che non si sommino. Salvini tira, Di Maio molla. In ogni elezione dopo il 4 marzo la Lega è cresciuta e il M5S è calato. E più Salvini tira, come nel braccio di ferro in mare, più Di Maio soffre anche nel suo mondo, dove l’ala umanitaria, da Fico a Nogarin, teme che i Cinquestelle si stiano trasformando nella corrente di sinistra del governo della Lega. Considerato che tra un anno ci sono le europee, spartiacque della legislatura, la logica dice che la competizione è destinata a crescere.

Era questo del resto un azzardo calcolato, del quale entrambi i leader sono consapevoli fin dalla formazione del governo. I due si sono per questo divisi i compiti come nei film: Salvini fa il poliziotto cattivo e Di Maio quello buono. Il primo fa la faccia feroce con migranti e ladri d’appartamento, il secondo si propone di distribuire sussidi e lavoro a tutti. Ma se alzare la voce con Malta o rafforzare la legittima difesa si può fare a costo zero, per il reddito di cittadinanza o per riformare la Fornero ci vogliono un sacco di soldi.

Dunque Salvini è padrone del Viminale, mentre Di Maio deve sempre passare prima per il Tesoro, dove il ministro Tria — lo ha dichiarato al Corriere rassicurando i mercati — annuncia di voler fare buona guardia dei conti pubblici. È però presto per emettere sentenze. Non solo perché i Cinquestelle sono un movimento d’opinione, non un partito strutturato come la Lega, e dunque soffrono particolarmente nelle elezioni locali basate sulle preferenze. Soprattutto al Sud, il voto clientelare si prende la sua rivincita alle amministrative. Non bisogna poi sottovalutare il fatto che il radicalismo grillino ha scavato nel tempo un solco profondo nella società italiana, che non sparirà presto. L’idea di una democrazia diretta, dove uno vale uno e si può fare a meno della casta, si è dimostrata un’utopia seducente per una fetta di elettorato, che percepisce per questo il M5S come una forza più «democratica» delle altre. D’altra parte, poco più di dieci anni fa, un altro grande partito nacque proprio per rispondere all’esigenza di cambiare il rapporto tra elettori ed eletti, seppure con altri metodi; e si chiamò «democratico». È dunque probabile che, di fronte alle prime difficoltà, i Cinquestelle reagiranno provando ad accelerare sul versante della riforma della politica, dai vitalizi, ai referendum consultivi, al vincolo di mandato per i parlamentari.

Resta il fatto che, per ora, i due radicalismi al governo non si sommano. Anche perché sono di segno opposto: l’uno è schiettamente di destra; l’altro raccoglie ormai pulsioni diverse, ma nasce a sinistra (la prima mossa politica di Grillo fu tentare di partecipare alle primarie del Pd). E se non si sommano, vuol dire che l’asse intorno al quale si struttura la politica italiana non è ancora diventato quello che divide popolo ed élite, come ci hanno detto i vincitori del 4 marzo; ma è rimasto invece, seppure in forme nuove e confuse, quello che divide la destra dalla sinistra. Molto istruttivo è ciò che è accaduto nelle elezioni per i due municipi di Roma, dove il crollo dei Cinquestelle, che forse cominciano a perdere l’effetto teflon (le padelle cui non si attacca mai lo sporco) e a pagare l’inconsistenza amministrativa della giunta Raggi, rigenera il Pd. Mentre la Lega tira l’intero centrodestra fino all’Umbria, e lascia spazi a un primo recupero di Forza Italia nel Mezzogiorno.

Ciò dà un indubbio vantaggio competitivo a Salvini. Lui infatti ha un’uscita di sicurezza. Dovesse venir giù l’alleanza alle prossime europee, può sempre provare a cambiare in corsa la coalizione, risuscitando il centrodestra. Di Maio, invece, non saprebbe dove andare.

CORRIERE.IT

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