Il flipper della guerra commerciale, dai dazi danni imprevedibili per l’economia mondiale

 MAURIZIO RICCI

È ufficiale. Il 1 maggio scoppierà la più grave guerra commerciale dell’era della globalizzazione e, probabilmente, dell’intero dopoguerra. Tutti, a cominciare da Angela Merkel, l’ultima ad aver incontrato il presidente americano, si aspettano che la Casa Bianca applichi davvero, da martedì, le tariffe del 10 per cento alle importazioni dall’Europa di acciaio, finora congelate, e la Ue risponderà imponendo dazi sui jeans Levi’s, sulle moto Harley Davidson, sul bourbon. Al contrario delle guerre vere, i conflitti commerciali sono film che si possono interrompere in qualsiasi momento e riavvolgere in un attimo. Ma questo potrebbe espandersi in modo esplosivo. A differenza degli scontri dei passati decenni, infatti,  non è limitato a capitoli specifici come la “tassa sui polli”, le bistecche agli ormoni e gli Ogm.

In linea di principio può diventare, una ritorsione dopo l’altra, un conflitto a 360 gradi. L’unico vantaggio è che Trump diventa un po’ meno imprevedibile. Ora sappiamo che l’unica bussola del presidente americano sono gli umori della fascia di elettorato che lo ha portato alla Casa Bianca, anche se questo lo pone contro i grandi interessi che sostengono il suo partito. E sappiamo anche che il suo mondo di riferimento è quello della sua infanzia, negli anni ’50, quando il commercio internazionale era fatto di prodotti finiti che andavano da un paese all’altro.

Quanto costa. Nell’era della globalizzazione, è stato il commercio a trainare l’economia, sviluppandosi sistematicamente più velocemente della produzione. Gli economisti calcolano, dunque, che una guerra commerciale a livello globale (i dazi di Trump sull’acciaio sono contro Ue, Cina, Giappone) le tariffe doganali finirebbero per aumentare, mediamente, al 32 per cento. La crescita mondiale verrebbe decurtata di 1-2 punti percentuali. Nell’immediato,  a subirne di più le conseguenze sarebbe la Ue, che esporta l’equivalente del 3,5 per cento del suo Pil, il doppio dell’1,7 per cento della Cina. Ma, come nel flipper, non si sa dove va, rimbalzando, la pallina: se un paese importa qualcosa, è perché è più efficiente che produrselo da solo.

Le ragioni. Trump non è il primo a lagnarsi dei furti di prorietà intellettuale dei cinesi e del torrente di esportazioni tedesche. Lo aveva fatto anche Obama. Ma è dubbio che riesca a mettere all’angolo Pechino senza allearsi con europei e giapponesi. E conferma di muoversi in una visione degli scambi commerciali che non esiste più. Il presidente americano ripete che gli Usa hanno un deficit con l’Europa di 151 miliardi di dollari. Ma, insieme ai beni, ci sono i servizi (assicurazioni, noli, finanza) dove gli americani hanno un attivo di 50 miliardi di dollari. Il deficit è, dunque, di 100 miliardi. Dice che le auto Usa pagano un dazio del 10 per cento in Europa, quelle europee del 2,5 per cento in America. Ma si dimentica dei Suv, i fuoristrada così cari agli americani. Questi pagano un dazio, negli Usa, del 25 per cento. Il risultato è che, nella media delle vendite, le tariffe si equivalgono. Troppe auto tedesche sulle strade americane? Bmw, Mercedes, Vw producono, nelle loro fabbriche americane, più macchine di quante ne importino dalla Germania.

Funziona? Gli economisti dicono che le guerre commerciali non giovano a nessuno. I dazi sull’acciaio rendono la vita più facile ad aziende che impiegano 150 mila lavoratori e più difficile (perché aumentano i prezzi della materia prima) quella di aziende che ne impiegano dieci volte di più. Più in generale – ha spiegato per tutti Maurice Obstfeld, il capoeconomista del Fmi – i deficit commerciali non si curano con i dazi. Lo squilibrio tamponato con le tariffe rispunta in un altro settore. Perché se un paese spende più di quanto guadagna (gli Usa, con i debiti di famiglie e dello Stato) finirà sempre per importare e uno che guadagna più di quanto spende (la Germania) per esportare. In più, un paese che è già ai limiti della capacità produttiva (gli Usa, con la disoccupazione sotto il 4 per cento) non ha i margini per sostituire le importazioni con la produzione interna.

I danni. Paradossalmente i danni maggiori della guerra possono venire dalla pace successiva. Il dogma della globalizzazione è che i vantaggi commerciali garantiti ad un paese si estendono automaticamente a tutti gli altri. Se si torna a trattative e accordi bilaterali – come vuole Trump – si torna alla legge della giungla.

REP.IT

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