Il Pd manda un segnale al Qurinale

Con una direzione celebrata in assenza dell’ormai ex segretario, il Pd prova a voltare pagina dopo la bruciante sconfitta del 4 marzo. «Preso atto dei risultati elettorali rassegno le mie dimissioni — è scritto nella missiva di arrivederci, firmata da Renzi e letta dal presidente Orfini —. Ti prego di convocare l’Assemblea, in quella sede spiegherò le ragioni delle dimissioni».

Un mese di tempo per far sedimentare i detriti e ripartire dal documento unitario votato anche dalla minoranza, con 7 astenuti tra cui Emiliano. «Un capolavoro» esultano orlandiani, gentiloniani, franceschiniani, cuperliani, sollevati perché «Renzi va a casa e Martina accetta un organismo collegiale».

A metà aprile i mille delegati dell’assemblea, in maggioranza renziani, decideranno come e quando eleggere il segretario. Ma il dato politico è che il congresso è rimandato, il Pd archivia le primarie e conferma la linea di opposizione. «Cari Di Maio e Salvini, non avete più alibi — scandisce Martina —. Prendetevi le vostre responsabilità». Ma nel documento finale il Pd apre al governo di scopo e «garantisce al presidente della Repubblica il proprio apporto nell’interesse generale».

In prima fila siede Paolo Gentiloni, descritto come un leader che invita al «volemose bene». Il reggente cita Churchill e sprona a trasformare la sconfitta in «riscossa». Veltroni non c’è, Zingaretti ricambia gli elogi di Martina: «Bene. Unità, confronto e innovazione». E così il tentato blitz di Orfini e Martina, che speravano di chiudere senza dibattito, viene respinto dalle minoranze di Orlando e Cuperlo, decimate quanto determinate a «non consegnare il reggente a Renzi». Il Guardasigilli si dice disposto a sciogliere la sua area «per fare un passo avanti insieme», ma chiede a Martina «alcune garanzie». La prima (che non otterrà) è azzerare tutte le cariche dell’era renziana, a partire dalla segreteria. «Serve un collettivo inclusivo e plurale», sintetizza Cesare Damiano. La seconda è sanare il «vulnus profondo» delle liste chiamando coloro che non sono stati candidati «senza sapere perché». Dal braccio destro di Orlando, Andrea Martella, al socialista Marco Di Lello.

Nessun processo al condottiero disarcionato, niente damnatio memoriae. Ma Orlando stoppa la tentazione di una veloce rivincita: «Io non penso che mentre qualcuno si carica il peso di una lunga transizione, qualcuno si defila e spara sul quartier generale secondo una strategia di Mao Tse-tung». Alla fine Martina è contento perché ha mediato e disinnescato lo scontro e Gentiloni spande ottimismo: «Il Pd saprà risollevarsi con umiltà e coesione». Con o senza Renzi? Il premier gli rende l’onore delle armi : «Le dimissioni esempio di stile e coerenza politica».

CORRIERE.IT

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