Il diritto di contare

Il venerdì della scorsa settimana passerà alla storia (più probabilmente alle cronache) come il giorno del miracolo. Per ventiquattr’ore tutte le forze politiche d’incanto si sono scoperte in pieno e totale accordo: partiti, gruppi e movimenti si sono ritrovati, quasi all’unisono, ad alzare la voce contro Jean-Claude Juncker che, non senza qualche goffaggine, aveva invitato gli italiani a predisporsi ad un «governo non operativo», cioè con modeste potenzialità d’intervento. Curiosamente Juncker accennava alla fatalità per cui nello stesso giorno in cui da noi si terranno le elezioni, il 4 marzo, in Germania si saprà se gli iscritti all’ Spd hanno accettato che il loro partito entri a far parte del governo di coalizione di Angela Merkel. E citava questa coincidenza per sottolineare la diversità tra il caso italiano e quello tedesco. Del primo si dava pena, del secondo meno. Effettivamente molti Paesi europei in tempi recenti sono stati costretti a contemplare l’anomalia delle Grandi Coalizioni, ma la loro situazione è diversa da quella italiana in cui – stante l’attuale sistema di voto – questo genere di alleanze sarà d’ora in poi pressoché obbligatorio. Eccezione o costrizione, qui sta la differenza: lo sappiamo benissimo, lo diciamo e ne scriviamo da mesi; ma sono cose che a sentirsele dire d’oltre confine, suscitano in noi una qualche irritazione. Legittimo.

 

Sospettiamo però che il moto di sdegno non sia stato dettato da orgoglio patriottico, bensì dalla paura che l’allarme del presidente della Commissione europea possa compromettere la complicata trama tessuta per dare un governo alla prossima legislatura. Una trama che, a detta dei più, avrebbe al suo centro un unico nome, quello dell’attuale capo del governo, Paolo Gentiloni, rivelatosi peraltro un ottimo presidente del Consiglio. Un nome, ci sia consentito dirlo, eccessivamente evocato, senza che coloro i quali pur lo coprono di meritate lodi, tengano in alcun conto della delicatezza della trama di cui si è detto. A nessuno può sfuggire infatti che, perché Gentiloni torni a Palazzo Chigi, occorre che il suo partito e la mini coalizione raccolta attorno ad esso ottengano dalle urne un responso convincente che sopravanzi quello degli altri contendenti. Dopodiché è ugualmente chiaro che, ove mai vedesse la luce, il nuovo governo Gentiloni dovrebbe essere strutturalmente diverso da quello della precedente legislatura.

Quale sarebbe la differenza? Per rispondere a questa domanda si è ripescato il precedente del 1976 quando un esponente della Dc fu chiamato a guidare un esecutivo di «non sfiducia» destinato a porre le basi per un governo di unità nazionale. Va ricordato che all’epoca la Democrazia Cristiana aveva conquistato nelle urne una netta maggioranza (il 38,7% dei voti, contro il 34,4 del Pci e il 9,6 del Psi). Va altresì rammentato che a guidare la nuova compagine fu chiamato Giulio Andreotti e non Aldo Moro, più sensibile al tema dell’incontro tra Dc e comunisti, oltretutto assai apprezzato per l’esser reduce dall’aver pilotato, assieme a Ugo La Malfa, un governo di disintossicazione dagli anni fanfaniani. Andreotti, diversamente da Moro, era considerato un uomo di «bilanciamento»: pochissimi anni prima, nel ’72, aveva guidato un gabinetto di centrodestra e fu scelto come contrappeso, di destra appunto, al nuovo rapporto con i comunisti. Va infine riportato alla memoria che, a metà degli anni Settanta, il terreno era stato per così dire arato dal lungo dibattito sul «compromesso storico» proposto su Rinascita da Enrico Berlinguer a seguito del golpe cileno (1973).

Oggi nessuno ha né teorizzato né spiegato perché sarebbe necessario un governo che inglobi tutti i principali soggetti della politica italiana. Ma poi sarebbero davvero tutti? Stando a ciò che si legge, la grande coalizione all’italiana non includerebbe quello che i sondaggi indicano come il partito destinato a ottenere il maggior numero di voti, i Cinque Stelle. Solo Michele Emiliano vedrebbe i pentastellati primi attori di un governo che si avvarrebbe della fiducia di un Pd derenzizzato, del partito di Pietro Grasso e di quello di Emma Bonino (la quale però si è già chiamata fuori dalla bizzarra combinazione). Per il resto, il coinvolgimento dei seguaci di Di Maio nel grande gioco viene ipotizzato, al massimo, con la concessione di qualche «poltrona istituzionale» (la Presidenza della Camera, la guida di una commissione per la riforma della legge elettorale o entrambe). Sta in piedi un disegno del genere? Sia consentito dubitarne.

A questo punto si può fin d’ora prevedere che, così come negli ultimi anni abbiamo rimpianto alcuni aspetti della Prima Repubblica, tra qualche tempo saremo indotti a ricordare con nostalgia la stagione in cui gli elettori ebbero l’opportunità di scegliere tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi e di mandare al governo, con regolarità, ora l’uno, ora l’altro. Certo, non si trattò di governi stabili e ai protagonisti di quelle esperienze toccò fare quotidianamente i conti con il ricatto dei partiti di dimensioni più modeste. Ma c’è qualche possibilità che i futuri esecutivi, semmai riusciranno a venire al mondo, siano destinati a vivere in condizioni migliori?

In genere a questo punto del discorso si è soliti scaricare ogni responsabilità sull’attuale sistema elettorale (sul quale, ad onor del vero, siamo stati tra i primi ad esprimere riserve). Ma dobbiamo dirci consapevoli che, lungo i binari tracciati da ben due sentenze della Corte Costituzionale, è quasi impossibile dar vita a una nuova legge che regoli i meccanismi di voto in modo da rendere realizzabile la creazione di una maggioranza omogenea e stabile in entrambi rami del Parlamento. Dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che nessuna delle leggi prese in esame nell’ultimo anno, dopo la seconda sentenza della Consulta, avrebbe garantito le maggioranze omogenee e stabili di cui si è testé detto. Neanche una. Esiste infine una questione più di fondo. Dovrebbe un corpo elettorale avere il diritto di indicare, oltre a un partito o una coalizione, una maggioranza di governo che sia autosufficiente e alternativa alle altre? Certo sarà poi il Capo dello Stato — in obbedienza al dettato costituzionale — a scegliere il capo del governo e, almeno in parte, i ministri. Ma è consentito che nel merito possano dire la loro anche gli elettori? La seconda Repubblica una risposta a questa domanda l’aveva data. La terza, ancora no.

CORRIERE.IT

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