Così i robot spingono il lavoro più in là

Alberto Mingardi

Parleremo del lavoro al passato? Il Presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim è tornato a ragionare sulla minaccia della disoccupazione tecnologica. I consulenti hanno trovato un filone aurifero nella fantascienza: continuano a vaticinare la robotizzazione di questo o quel mestiere.

 Dormono sonni tranquilli le cameriere d’albergo (difficilissimo insegnare alle macchine a rifare i letti), temono il peggio le professioni intellettuali. Jack Ma, il fondatore di Alibaba, ha esortato a insegnare ai bambini a dipingere e a suonare uno strumento musicale: «È ciò che ci rende umani». La musica è fra le più straordinarie creazioni dell’uomo, ma nessuno aveva mai pensato a Stravinskij come antidoto per la disoccupazione.

E’ curioso che molti siano pronti a immaginare iniziative straordinarie contro un problema che ancora non c’è, e pochissimi a occuparsi di una questione sempre più evidente. L’impressione diffusa è che la scuola sia in crisi un po’ in tutti i Paesi occidentali. Che gli insegnamenti non siano ben calibrati su esigenze e sensibilità contemporanee. Che ci siano difficoltà legate alle modalità di trasmissione della conoscenza (anche ma non solo perché vivere attaccati agli smartphone influisce sulla capacità di concentrazione). Che l’istruzione sia in larga misura burocratizzata, artificialmente protetta dalla concorrenza e retta da incentivi che difficilmente premiano lo sforzo e il merito dei singoli docenti. Si potrebbe continuare.

Statene certi: nel futuro del lavoro, come nel suo presente, non mancheranno i problemi. Una scuola che funziona meglio potrebbe aiutare a risolverli.

Quali sono le alternative? Separare lavoro e pane, con il reddito di cittadinanza? Rallentare l’innovazione (cosa che alla politica riesce benissimo, anche senza volerlo)?

 

Dimentichiamo sempre che il miglioramento delle condizioni di vita delle persone è stato reso possibile dall’incremento del prodotto per ora lavorata, frutto del progresso tecnologico, e senza il quale non ci sarebbe stata alcuna crescita dei salari.

 

Una delle caratteristiche dell’innovazione tecnologica è proprio quella di rendere obsoleti alcuni mestieri. Il telefono mise fuori mercato i telegrafisti. Il computer ha mandato in pensione le dattilografe. Una volta le chiamate interurbane passavano per l’intervento di un plotone di centralinisti: con la teleselezione «integrale», negli Anni Settanta, ciascuno poteva finalmente telefonare ovunque sul territorio nazionale senza l’intervento di un addetto.

 

Scoperte e invenzioni cambiano anche l’organizzazione del lavoro. La fabbrica e l’ufficio non sono realtà «naturali». Come ha spiegato Joel Mokyr («I doni di Atena», Il Mulino), essi nacquero proprio perché le tecniche di produzione erano diventate più complesse e avevano bisogno del coordinamento di diverse competenze. Nell’800, ciò significava il controllo e la supervisione diretta: la fabbrica. Già oggi, in molti settori, la prossimità fisica è sempre meno rilevante.

I produttori di «scenari» sembrano ragionare come se la tecnologia andasse avanti da sola. Come se non dipendesse dalle idee degli esseri umani. Come se essa non riflettesse la conoscenza sempre più precisa dei fenomeni naturali e delle loro regolarità (la «scienza»), che a sua volta ci conduce a capire come sfruttarli a nostro vantaggio.

LA STAMPA

 

Siamo terrorizzati quando pensiamo a 7 miliardi di bocche da sfamare, ma dimentichiamo che sono anche 7 miliardi di teste. «Progresso» è tutto quel che può accadere grazie al loro contributo. Certo diventa ogni giorno più difficile, se li convinciamo che sono vittime predestinate della tecnologia, e non protagonisti dell’economia della conoscenza.

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