La strategia del controllo delle liste

Giovanni Orsina

All’indomani delle elezioni del 4 marzo, con ogni probabilità, sarà assai difficile mettere in piedi una maggioranza di governo. Se il Partito democratico resterà vicino al venti per cento come dicono oggi i sondaggi, inoltre, la leadership di Renzi verrà messa in discussione. E qualsiasi siano i risultati, nel corso della prossima legislatura non potrà che riaprirsi per l’ennesima volta – e, per ovvie ragioni, in maniera ancora più pressante che in passato – il problema della successione a Berlusconi. A tutto questo possiamo aggiungere infine le divisioni nella sinistra e nella Lega, oltre alla perdurante carenza d’identità politica e trasparenza organizzativa del Movimento 5 stelle. Si completa così il quadro di un Parlamento nel quale le forze politiche dureranno fatica non soltanto ad allearsi l’una con l’altra, ma pure a conservarsi unite.

Bene: se la prossima legislatura corre il rischio della balcanizzazione, perché ci meravigliamo o scandalizziamo tanto che i leader mantengano un controllo ferreo sulla composizione delle liste elettorali? È una mossa razionale non soltanto dal loro punto di vista, ma pure dal nostro, di italiani, se riteniamo che abbassare quanto possibile il livello d’entropia del prossimo Parlamento sia nell’interesse nazionale. Poi, certo, la mossa ha delle controindicazioni serie.</

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Ed è assai improbabile che basti a scongiurare il caos. Il leaderismo, tuttavia, è l’unico strumento d’ordine che ancora rimanga alla politica italiana. Soprattutto dopo le sentenze della Consulta sulle leggi elettorali e il fallimento della riforma costituzionale, e considerato che le lungaggini e i compromessi necessari a mettere in piedi dei partiti minimamente stabili e coerenti non paiono esser più tollerate dal Paese.

 

Se consideriamo con realismo (o, se preferite, rassegnazione) quel che è diventata la nostra vita pubblica, il problema non è che le liste siano rigidamente controllate dall’alto. È quanto coerente sia questo controllo con la storia e la cultura delle forze politiche. Ossia, quanto i partiti siano adeguati all’epoca poco felice che stiamo vivendo. Si capisce allora perché a destra la questione delle liste desti poco scandalo: Forza Italia è nata, è rimasta per un quarto di secolo, e morirà proprietà personale di Silvio Berlusconi. E anche nella Lega la leadership ha sempre svolto un ruolo fondamentale. In entrambi i casi, del resto, si tratta di soggetti politici nati nella stagione della crisi dei partiti tradizionali – e contro di loro.

 

Si capisce, poi, perché le polemiche sulla formazione delle liste siano state così feroci nel Partito democratico. In quel caso abbiamo assistito all’ultimo atto di una mutazione genetica radicale dalla tradizione progressista, incardinata sull’organizzazione del partito e sulle sue articolazioni interne, alla centralità assoluta della figura di Renzi. S’è trattato di una mutazione, per così dire, darwiniana: il Pd ne aveva bisogno per sopravvivere in un ambiente politico trasformato – anche se, a questo punto, chissà se basterà. Lo dimostra il fatto che quella tradizione progressista non è stata distrutta da Renzi; Renzi ha soltanto riempito il vuoto apertosi con la sua dissoluzione.

 

Quel che si capisce di meno, infine, è la disattenzione relativa per l’esempio più clamoroso d’incoerenza fra propositi e comportamenti. Il Movimento 5 stelle intendeva superare i limiti della politica contemporanea modificandone radicalmente le forme e gli strumenti. Se Berlusconi nel presente s’è sempre trovato benone, e il Pd doveva abbandonare il passato per entrare nel presente, per il M5S si trattava invece dal presente di portarci nel futuro. Promessa mancata: altro che futuro, il verticismo di Di Maio e soci è più contemporaneo che mai. Solo, per tanti elettori le contraddizioni del Movimento restano ancora meno gravi degli errori e delle ipocrisie degli altri partiti. Almeno per ora.

LA STAMPA

 

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