Partiti e soldi pubblici, promesse senza futuro

I partiti hanno sempre giocato con i soldi dei contribuenti. In che cosa consiste dunque l’evidente «clima iperbolico» di questa campagna elettorale, per usare l’ottima definizione che ne ha dato Dario Di Vico sul «Corriere»? La vera novità sta nel fatto che stavolta ci si propone di spendere solo per «togliere» e mai per «mettere»; sempre per disfare e mai per fare. I denari pubblici non sono cioè oggetto di una promessa di cambiamento, di un progetto di società, di un’idea di sviluppo; ma vengono puntati su una specie di Mercante in Fiera in cui ogni partito propone a una categoria un voto di scambio: metti una croce qui e io ti faccio risparmiare un centinaio di euro.

Facciamo qualche esempio. Il centrodestra di Berlusconi si è sempre presentato come il portatore di un’idea di sviluppo libera da lacci e lacciuoli, capace di scatenare gli «animal spirits» del capitalismo nostrano. Prometteva dunque sì grandi impegni di spesa, ma per progetti di crescita e di modernizzazione del Paese. La proposta di costruire il Ponte sullo Stretto ne fu un po’ il simbolo. Così come la legge sulle grandi infrastrutture. L’uso del denaro pubblico, per quanto poi rimasto sulla carta, era comunque finalizzato a un effetto leva, a mobilitare capitali privati, a promuovere sviluppo tecnologico e ricerca, a produrre lavoro e occupazione. Se ne avesse avuto la forza, l’Italia ne sarebbe uscita migliore, più moderna e più ricca. Di progetti con queste ambizioni non si sente più parlare dalle parti di Berlusconi. Si può anzi star certi che la flat tax, se realizzata, annullerebbe completamente le già scarsissime risorse disponibili per investimenti, senza contare gli effetti che produrrebbe sulla spesa corrente, che andrebbe tagliata e di molto.

Prendiamo invece l’idea alternativa di sviluppo da sempre proposta a sinistra: puntiamo sull’economia della conoscenza, sulle infrastrutture immateriali invece che su ponti e cemento. Un ritornello storico era l’obiettivo di spesa del 3% di Pil in ricerca (al «Sapere» era dedicato un intero capitolo del programma elettorale del 2013). Adesso invece, all’improvviso, la sinistra di Bersani e D’Alema propone l’abolizione delle tasse universitarie, togliendo così al già sfiatato sistema dell’istruzione terziaria la bellezza di due miliardi di euro l’anno: numero chiuso per tutti? Lo stesso vale per la Rai, il gioiello della corona del Pd fin dai tempi di Veltroni, pomposamente definita «la più grande industria culturale del Paese», alla quale andavano destinate ingenti risorse per evitare che l’offerta televisiva pubblica si omologasse a quella commerciale, abbassando gli standard di qualità e pluralismo. Doveva essere tutta fuffa per tenere in piedi il carrozzone Rai, se il nuovo Pd fa invece sapere, per bocca di Orfini, di essere «storicamente per l’abolizione del canone», un miliardo e ottocento milioni l’anno in meno per l’azienda. Il tutto avrebbe senso se si accompagnasse alla vendita a privati delle tre reti, ma il partito di governo non sembra affatto intenzionato a rinunciare alla nomina dei vertici e al controllo sull’azienda.

E come si concilierebbe l’abolizione del bollo auto proposto da Berlusconi con i progetti di città ecologiche, smart, sostenibili, non inquinate, che tutto il resto d’Europa persegue? Si tratterebbe di un incentivo al contrario, a restare nel passato dello smog e delle polveri sottili. Ecco, in termini ideali la caratteristica vera di questa campagna elettorale è proprio quella di non occuparsi del futuro. Chi dice di averlo a cuore, come i Cinquestelle, prepara il peggiore ritorno al passato: invece di creare lavoro, creare stipendi pagati dal contribuente (Di Maio si è spinto fino a 1950 mensili per ogni nucleo familiare con due figli oltre i 14 anni, il che renderebbe più conveniente non lavorare che lavorare: i manuali la chiamano la «trappola della povertà»). Bisogna infatti tenere a mente che tutte queste promesse vengono fatte a carico della fiscalità generale, dunque sono fonte di potenziali grandi ingiustizie. Perché alla fine qualcuno pagherà di più: il genitore che non può mandare i figli all’università pagherà le tasse anche per chi ce li manda; chi lavora pagherà il salario a chi non lavora; e chi non ha la televisione contribuirà a pagare il canone di chi ne ha tre.

Tutto ciò è sconcertante. Appare come il tentato suicidio della Seconda Repubblica. Proprio nell’anno in cui una ripresa sostenuta del prodotto interno e dell’occupazione avrebbero consentito alle forze anti-populiste di riaprire un discorso serio sul futuro dell’Italia, eccole rincorrere nel più goffo dei modi gli avversari populisti, che pure sembravano in difficoltà, al punto da rinunciare a slogan come l’uscita dall’euro. La favola di un «populismo buono» che batte quello «cattivo» cavalcandolo è un’illusione, e la débâcle del referendum costituzionale dovrebbe averlo insegnato anche alle teste più dure. E del resto la «strana» popolarità di Gentiloni, certamente non spiegabile con il fascino del leader, si può interpretare solo così: sembra l’unico ad aver capito che dopo tanti anni di crisi l’Italia chiede di ripartire, che ha di nuovo grandi ambizioni, e che i sogni degli italiani non si limitano più a un bonus di qualche decina di euro.

CORRIERE.IT

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