Accordo tra il Pd e la sinistra, per i bersaniani ormai è troppo tardi

«L’avete sentita tutti l’apertura sulle alleanze a sinistra, vero? È andata bene, oggi. L’avessimo fatta prima, quest’assemblea programmatica, ci saremmo risparmiati molti casini…». Su Napoli splende il sole. Anche se qualche nube che si intravede all’orizzonte sembra minacciare una pioggia che poi non arriverà. Andrea Orlando guadagna l’uscita del museo di Pietrarsa col sorriso in volto. Dopo il fuoco di fila che ha impedito al leader del Pd di chiudere ogni strada alla costruzione di un centrosinistra coi bersaniani dentro — a cui si sono iscritti in extremis anche Gentiloni e Minniti — il fronte dei «caschi blu» che punta alla coalizione «da Fratoianni ad Alfano» tira un mezzo sospiro di sollievo. Li chiamano proprio così nella cerchia ristretta di Renzi, «i caschi blu». È una pattuglia che viene un po’ temuta e un po’ vista con sollievo. Ne fanno parte a vario titolo, oltre al blocco ministeriale che va dal titolare della Giustizia a quello dei Beni culturali, anche pezzi da novanta come Romano Prodi ed Enrico Letta, Giuliano Pisapia ed Emma Bonino.

La legge elettorale

Proprio ad alcuni di questi, subito dopo aver ascoltato dai tg la sintesi delle conclusioni dell’assemblea di Napoli, Pier Luigi Bersani ha affidato ieri la sua reazione a caldo alle parole di Renzi. E, per chiunque lavora a un accordone, non è stato un bel sentire. «Gli avevamo teso la mano per modificare insieme la legge elettorale e lui ce l’ha ricacciata indietro», è stata la ferma posizione del leader di Articolo 1. «Adesso possiamo soltanto sperare di ritrovarci subito dopo le elezioni. Ma possibilità di accordarsi prima, al momento, non ce ne sono».

Accordo rischioso per Mdp

Una doccia gelata, insomma. Anche perché nella testa dei dirigenti bersaniani l’ipotesi di siglare un’alleanza light, basata sugli accordi di desistenza col Pd in una serie di collegi, di fatto non esiste. «Mettiamo pure caso», si sono detti ieri in una serie di telefonate i vertici di Mdp, «che a noi vada di sostenere una serie di candidati del Pd nel maggioritario in cambio del loro sostegno ad alcuni dei nostri. Mettiamo caso che rinunciassimo a candidare uno dei nostri dove c’è Renzi in cambio del fatto che Renzi rinunci a candidare un pd dove corre Enrico Rossi. Se lo facessimo, per colpa dell’assenza del voto disgiunto, in quegli stessi collegi dovremmo rinunciare a presentare il nostro simbolo e saremmo costretti a perdere i voti nel proporzionale. Dovevano pensarci prima, quelli del Pd. Adesso sanno perfettamente che non possiamo giocarci il raggiungimento del quorum, e quindi la sopravvivenza, in nome della desistenza…».

La richiesta: «Via il Jobs act»

Senza la scappatoia, insomma, non rimane che la strada maestra. O si vince col jackpot, e si fissa un accordo nazionale. O, per dirla con Bersani, «al massimo ci si incontra subito dopo il voto». È per questo, adesso, che tutti quelli che lavorano a un accordo sperano che la Sicilia non complichi ulteriormente il quadro. «Per avviare il cantiere della coalizione, dovevamo sperare che il Pd non andasse benissimo alle regionali siciliane. E questo obiettivo ormai è a portata di mano», spiega un ministro del governo Gentiloni che ha visto gli ultimi sondaggi. Poi però, subito dopo, aggiunge: «Adesso abbiamo un problema addirittura più grosso. Sperare che Fava non realizzi quell’exploit che spingerebbe la sinistra radicale ad allontanare definitivamente Bersani dall’accordo col Pd…». Fino a domenica prossima, tutto resta fermo. Dal governo si preparano ad andare incontro ad alcune richieste dei bersaniani da infilare nella legge di bilancio. Per Bersani, Speranza, D’Alema e compagnia, la richiesta per sedersi al tavolo è «via il Jobs act subito». Che, tradotto dal politichese, vuol dire «via Renzi dalla guida della coalizione».

CORRIERE.T

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