E nella crisi catalana la Spagna scopre le alleanze

Nella crisi catalana, sempre in bilico tra la farsa e la tragedia, c’è un elemento sinora trascurato, ma che ci riguarda. Popolari e socialisti, gli eredi delle famiglie politiche contrapposte dalla guerra civile, stanno collaborando.

I separatisti e la sinistra antisistema contavano sul Psoe per far cadere Rajoy. Il governo di destra si regge infatti sull’astensione del partito socialista; un po’ come gli esecutivi democristiani negli anni di piombo stavano in piedi grazie alla «non sfiducia» del Pci. In Spagna Pedro Sánchez aveva vinto le primarie su una linea contraria alla grande coalizione con il partito popolare. Oggi un suo pollice verso in Parlamento sarebbe fatale a Rajoy; e porterebbe o a un’improbabile coalizione «pueblo unido» tra le sinistre e gli indipendentisti, o a nuove elezioni.

Sánchez fa tutto il contrario. Appoggia la linea dura del premier, con qualche timido distinguo sulle violenze della Guardia Civil. Non evoca i fantasmi della dittatura. Va alla Moncloa a conferire con Rajoy. È contrario non solo alla secessione, ma anche a un referendum in cui i catalani possano decidere. In cambio ha ottenuto solo un impegno un po’ fumoso su una commissione che dovrebbe gettare le basi per riscrivere la Costituzione in chiave federalista.

Intendiamoci: la sua scelta non è mossa da una convinta adesione alle larghe intese in versione iberica. Sánchez sa che la causa catalana è profondamente impopolare nel resto della Spagna. A cominciare dalle regioni più povere, dall’Andalusia all’Estremadura, tradizionale bacino di voti socialisti: la rivale interna di Sánchez, la presidente andalusa Susana Díaz, è la prima avversaria dei duri di Barcellona. Se Sánchez mollasse Rajoy, il Psoe si spaccherebbe, e l’esito elettorale sarebbe nefasto; il Pp si ergerebbe a garante della sopravvivenza della Spagna, d’intesa con la monarchia e la Chiesa, e i socialisti si ritroverebbero in un angolo.

Tuttavia la portata storica della svolta non va sottovalutata. Perché non fa parte della cultura politica spagnola. Perché avviene in un Paese dove gli antenati politici della destra al potere ancora due generazioni fa mandavano gli oppositori di sinistra in carcere o alla garrota. E perché accade in un momento storico e in un’Europa percorsi da tensioni al limite dell’eversione.

In Spagna forze che si sono combattute aspramente — Sánchez nel duello televisivo ha detto a Rajoy che «per governare bisogna essere persone decenti, e lei non lo è» —, e che mai potrebbero presentarsi unite alle elezioni, di fatto reggono insieme lo Stato, nel momento del pericolo. Si vedrà se questo basterà a disinnescare la crisi catalana; ma certo incoraggia i grandi gruppi industriali e finanziari a prendere la distanza dalla secessione (ieri l’azienda-simbolo della viticultura, Codorníu, in Catalogna dal 1551, si è trasferita nella Rioja). Altri Paesi come la Francia risolvono le frammentazioni con un sistema politico che consente di individuare un leader e dargli cinque anni di tempo.

L’Italia sta cercando faticosamente un compromesso — insoddisfacente come ogni compromesso, ma meglio di nulla — su nuove regole elettorali. L’unità territoriale del Paese non è in discussione, la Lega è passata da Padania Libera a Italia Sovrana. Ma anche da noi la dialettica da tempo non è più tra destra e sinistra, bensì tra sistema e antisistema.

CORRIERE.IT

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