Governo del presidente. Per il dopo voto cresce l’ipotesi del paracadute

ugo magri
roma

Con l’aria di chi va dicendo cose scontatissime, già chiarite da uno scienziato come il compianto Giovanni Sartori, Massimo D’Alema giorni fa ha posato il cappello sul «governo del Presidente». Vale a dire sul paracadute che si aprirebbe nel caso, altamente probabile, di elezioni politiche senza un chiaro vincitore, dove nessun partito ottenga una maggioranza tale da consegnargli le chiavi del potere. In pubblico se ne parla poco poiché i leader, tutti, preferiscono spargere l’illusione di un trionfo a portata di mano. Invece D’Alema, con la sua furbizia, ha anticipato il tema che sicuramente si porrà all’indomani del voto e anzi già è oggetto di valutazioni nelle sedi che contano.

 LE PREFERENZE DI ARCORE

Un esempio: da Arcore, dove nessun segreto resiste più di dieci minuti, emerge come i berlusconiani non solo sarebbero pronti a infilarsi in un «governo del Presidente», quale atto di responsabilità verso l’Italia, ma pare siano stati discussi con Berlusconi perfino i nomi di chi avrebbe le migliori chance di guidarlo. Paolo Gentiloni rimane in pole position perché nulla è più semplice che prorogare chi occupa una poltrona, specie se si è distinto per garbo verso il Cav. Ma cresce prepotente in Forza Italia la considerazione verso un’altra figura istituzionale, qual è senza dubbio il ministro dell’Interno. Per come Marco Minniti si sta muovendo su sicurezza e immigrazione, assicurano i “berluscones”, lo stesso Salvini farebbe fatica a tirarsi indietro, lo preferirebbe certamente a un amico della Merkel come Antonio Tajani.

 

LA CARTA VINCENTE

Più monta il chiacchiericcio nei partiti, meno il Colle desidera assecondarlo. Ovvio il rifiuto di “speculare” su qualcosa ancora futuribile. Mancano sei mesi alle elezioni, le variabili del “dopo” sono mille. Inoltre, chi frequenta Sergio Mattarella esclude che il presidente scalpiti per mostrare i suoi super-poteri. Un po’ il protagonismo gli è estraneo, e poi il Capo dello Stato non è in grado di costringere nessuno. «Può costruire le condizioni con una tenace regia», osserva il “dem” Giorgio Tonini, attento a queste dinamiche, «ma qui si tratta di far nascere una maggioranza che poi voti la fiducia al “governo del Presidente”». Insomma, la bacchetta magica non esiste. Eppure, al Quirinale non manca la carta vincente, vero asso pigliatutto. Si tratta dell’impossibilità pratica di tornare alle urne come è avvenuto in Spagna, qualora lo stallo del dopo-voto da noi fosse totale.

 

TEMPI OBBLIGATI

È tutta una questione di calendario. Se voteremo a marzo, le date più probabili il 4 o l’11, poi ci vorranno i canonici venti giorni per la prima riunione delle Camere e un’altra decina perché queste eleggano gli organi indispensabili: i rispettivi presidenti, gli uffici di presidenza e i gruppi parlamentari, senza i quali il Capo dello Stato non saprebbe chi consultare. Dopodiché si apriranno le consultazioni. Nel 2013 Giorgio Napolitano fu un fulmine, vide tutti i partiti in sole 24 ore sottoponendosi a un tour de force, eppure la soluzione della crisi arrivò due mesi dopo il voto. Perfino prendere atto che formare una maggioranza è impossibile richiederebbe il suo tempo e un passaggio parlamentare per prenderne atto. Gli esperti del ramo assicurano che, votando a marzo, l’iter non si concluderebbe prima di metà maggio, col risultato che nuove elezioni «alla spagnola» cadrebbero a fine luglio, impensabile. Dunque un governo dovrà nascere per forza, pena sconquassi istituzionali e drammi sui mercati. Nessuno dotato di buon senso rifiuterà di aprire il paracadute.

LA STAMPA

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