Seregno, il sindaco dei proclami per la legalità diventato «zerbino» per favorire i boss|

Antonino Lugarà, imprenditore immobiliare di 64 anni, calabrese di Melito Porto Salvo, «capitale sociale» della ’ndrangheta brianzola, già scampato a un attentato di rivali armati di kalashnikov contro la macchina blindata (sceso, aveva risposto con le pistole), era il «dominus» di Seregno e poteva comandare senza avere certezze. «Non sapevo chi c… mettere» confidava al telefono, a elezioni avvenute nel giugno 2015. Voleva un uomo nel nuovo consiglio comunale e non aveva un nome pronto. Nessun problema. Aveva obbligato a candidarsi l’impresentabile Stefano Gatti, suo prestanome in cinque società e privo d’una qualsiasi competenza. Gatti era stato eletto. Ma non bastava.

 

Quel Gatti andava premiato con la presidenza di una commissione. «C… ne so, può andar bene la cultura?» domandava a Lugarà l’avvocato civilista Edoardo Mazza. Lugarà, ovvero il «sindaco dell’anti-Stato»; e Mazza, il vero sindaco di questo comune di 45 mila abitanti tra i più produttivi del Nord Milano. Classe ’77, sconosciuto fino a ieri (è ai domiciliari, quando sono arrivati i carabinieri è svenuto per la paura), Mazza s’era pubblicamente fatto notare per una foto dopo lo stupro di Rimini con le forbici in mano e per i proclami da difensore della legalità: «La mafia si combatte con i fatti». Poi, nella realtà, come rilevato e scritto dagli inquirenti, Mazza era «lo zerbino», il «lacchè», era l’esecutore d’ogni ordine di Lugarà al quale permetteva d’entrare in Comune come fosse casa sua, sedersi nelle salette degli uffici, spazientirsi se la persona convocata tardava a venire.

L’inchiesta ha azzerato il municipio di Seregno e ha evidenziato l’assoluta convinzione di impunità: rimarranno imperiture le abitudini di un tecnico, in seguito suicida, che accoglieva in Comune prostitute dell’Est Europa.

Si potrebbe parlare per ore del resto della cricca, il vicesindaco Giacinto Mariani e il dirigente delle Politiche sociali Carlo Santambrogio, il geometra Antonella Cazorzi e l’assessore alla Protezione civile Gianfranco Ciafrone, tutti indagati, tutti che vedevano e tacevano, se lo facevano piacere e ne approfittavano. Non dimenticando Giuseppe Carello, pubblico ufficiale traditore della Procura di Monza e fornitore di segreti. Ma alla fine, a monte del «sistema», c’era sempre Mazza. In cambio del sostegno elettorale («Ogni promessa è debito»), con stravolgimenti delle norme Lugarà aveva ottenuto la concessione di un’area per costruire un supermercato. Il sindaco s’inchinava e perdeva in adulazioni verso l’imprenditore: «Io e te siamo la stessa cosa». Ignorava, anzi fingeva d’ignorare, che tanto non era lui a scegliere. Il 22 giugno 2015 s’erano incontrati al bar Mimo’s di Seregno, fresco di nuova giunta. La conversazione, ascoltata dai carabinieri, evidenziò con due frasi chi fosse al guinzaglio. Lugarà: «Abbiamo vinto». Mazza: «Bravo».

Antonino Lugarà, imprenditore immobiliare di 64 anni, calabrese di Melito Porto Salvo, «capitale sociale» della ’ndrangheta brianzola, già scampato a un attentato di rivali armati di kalashnikov contro la macchina blindata (sceso, aveva risposto con le pistole), era il «dominus» di Seregno e poteva comandare senza avere certezze. «Non sapevo chi c… mettere» confidava al telefono, a elezioni avvenute nel giugno 2015. Voleva un uomo nel nuovo consiglio comunale e non aveva un nome pronto. Nessun problema. Aveva obbligato a candidarsi l’impresentabile Stefano Gatti, suo prestanome in cinque società e privo d’una qualsiasi competenza. Gatti era stato eletto. Ma non bastava.

Quel Gatti andava premiato con la presidenza di una commissione. «C… ne so, può andar bene la cultura?» domandava a Lugarà l’avvocato civilista Edoardo Mazza. Lugarà, ovvero il «sindaco dell’anti-Stato»; e Mazza, il vero sindaco di questo comune di 45 mila abitanti tra i più produttivi del Nord Milano. Classe ’77, sconosciuto fino a ieri (è ai domiciliari, quando sono arrivati i carabinieri è svenuto per la paura), Mazza s’era pubblicamente fatto notare per una foto dopo lo stupro di Rimini con le forbici in mano e per i proclami da difensore della legalità: «La mafia si combatte con i fatti». Poi, nella realtà, come rilevato e scritto dagli inquirenti, Mazza era «lo zerbino», il «lacchè», era l’esecutore d’ogni ordine di Lugarà al quale permetteva d’entrare in Comune come fosse casa sua, sedersi nelle salette degli uffici, spazientirsi se la persona convocata tardava a venire.

L’inchiesta ha azzerato il municipio di Seregno e ha evidenziato l’assoluta convinzione di impunità: rimarranno imperiture le abitudini di un tecnico, in seguito suicida, che accoglieva in Comune prostitute dell’Est Europa.

Si potrebbe parlare per ore del resto della cricca, il vicesindaco Giacinto Mariani e il dirigente delle Politiche sociali Carlo Santambrogio, il geometra Antonella Cazorzi e l’assessore alla Protezione civile Gianfranco Ciafrone, tutti indagati, tutti che vedevano e tacevano, se lo facevano piacere e ne approfittavano. Non dimenticando Giuseppe Carello, pubblico ufficiale traditore della Procura di Monza e fornitore di segreti. Ma alla fine, a monte del «sistema», c’era sempre Mazza. In cambio del sostegno elettorale («Ogni promessa è debito»), con stravolgimenti delle norme Lugarà aveva ottenuto la concessione di un’area per costruire un supermercato. Il sindaco s’inchinava e perdeva in adulazioni verso l’imprenditore: «Io e te siamo la stessa cosa». Ignorava, anzi fingeva d’ignorare, che tanto non era lui a scegliere. Il 22 giugno 2015 s’erano incontrati al bar Mimo’s di Seregno, fresco di nuova giunta. La conversazione, ascoltata dai carabinieri, evidenziò con due frasi chi fosse al guinzaglio. Lugarà: «Abbiamo vinto». Mazza: «Bravo».

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