Maria Callas, il genio nascosto dietro la fragilità

Maria Callas nel 1958 al galà della Legion d’Onore a Parigi dove interpretò l’aria della Casta Diva dalla Norma di Bellini

alberto mattioli
 

D’accordo: diamo per detti il dimagrimento, la mamma stronza, il divorzio da Meneghini, gli amori sbagliati, quindi l’orrido Onassis, e quelli impossibili, vedi Visconti e Pasolini, i tailleur della Biki, la morte misteriosa. Tutto ha già tracimato su inutili inserti giornalistici, libri deplorevoli, film sciropposi, perfino fiction tivù, come dire il massimo del minimo. E poi diciamolo: quarant’anni fa, quel 16 settembre 1977, al 36 dell’avenue Georges Mandel di Parigi, morì una donna che in effetti era già morta. La vera domanda da porsi su Maria Callas è: perché, dopo tanto tempo, resta la cantante lirica più famosa del mondo? Perché il mito? Perché la Callas è la Callas?

 

La risposta è complicata, a più livelli. Intanto, dispiace per i rotocalchi, bisogna parlare di musica. Si è molto detto sulla «rivoluzione» della Callas, quel riappropriarsi, da parte di una voce corposa e scura, di parti appaltate per decenni ai soprani coccodè. L’exploit della stagione 1949 alla Fenice, quando alternò l’Elvira dei Puritani alla Brunilde della Valchiria, svelò le sue possibilità infinite. La sua Lucia di Lammermoor fu un autentico choc. Sembrava che con lei risorgesse un’epoca remota e mitica della storia dell’opera. Non in una impossibile «autenticità», perché con buona pace dei vociologi come cantassero davvero Giuditta Pasta o Maria Malibran non lo sapremo mai, ma come invenzione del vero, ri-creazione. Tanto era nuovo, quindi vecchio, il suo canto, che per definirlo si dovette coniare un termine che non era mai esistito: soprano drammatico d’agilità.

 

Il paradosso è sconcertante, di quelli che sono davvero possibili in quella concretissima assurdità che è l’opera. Ed è la ragione per la quale il sodalizio con Luchino Visconti fu così importante. Solo cinque titoli alla Scala, ma decisivi: La vestale, La sonnambula, La traviata, Anna Bolena, Ifigenia in Tauride. Il passato non venne ricostruito, in nome di quella «fedeltà» che esiste solo nelle ottuse utopie dei coeurs simples; semmai, evocato e reinventato. Fu un gioco di specchi. Romani e Donizetti leggono i Tudor alla luce della loro sensibilità fra classico e romantico; la Callas e Visconti rileggono in pieno Novecento l’idea che l’Ottocento aveva del Cinquecento. Nulla è «fedele», ma tutto è vero. Per tacere, poi, delle incredibili sperimentazioni della Callas terminale. Le note ballano, gli acuti sono presi per i capelli, ma lei gioca con i colori della voce, scava nel fraseggio, scarnifica la linea melodica, insomma fa della sua stessa fragilità una forza dirompente.

 

Ma non finisce qui. Perché a questa costruzione intellettuale lei, che intellettuale non era affatto, prestò la sua personalità, il suo talento animalesco, l’energia incredibile che riusciva a sprigionare sul palcoscenico questa donna che, fuor di scena, era insicura e incerta. Il donnone grasso e sgraziato, talmente miope da doversi muovere in scena quasi alla cieca, aveva già quel «quid» che non si può spiegare. Chiamatelo divismo, personalità, carisma, come volete (io preferisco: genio), non lo si può imparare: c’è o non c’è. A questi livelli, quasi mai.

 

Curioso che non si dica mai che la grande Callas è quella degli anni con Meneghini. A casa, signora bene di provincia, che prepara buoni piattini per l’anziano marito nell’appartamento di Verona o nella villa di Sirmione. In scena, menade, pizia, demonio in quelle parti stregonesche e magiche e ctonie così «sue»: e allora Norma e Lady Macbeth, Medea e Armida, Alceste e Ifigenia, tutte colossali sconvolgenti immense. La sua «grecità» smetteva allora di essere un dato biografico e diventava una componente essenziale della sua arte, come se con lei la musica nascesse dallo spirito della tragedia (e però: che leggerezza danzante e civettuola e perfida quando decideva di divertirsi, come nell’insuperabile Fiorilla del Turco in Italia).

 

Infine, ci fu la sua capacità, pur nella diversità dei personaggi, di portare in scena sempre sé stessa, aprendo degli squarci abbaglianti di verità assoluta. Funziona in disco, figuriamoci cosa doveva essere in teatro. Canta una frase, e non puoi fare a meno di crederci, come se il muro della finzione crollasse e restasse davanti a te quella donna disperata cui Verdi o Bellini davano la possibilità di esprimere quello che tutti proviamo. Allora qui sì, che la sua biografia torna a contare, la vita diventa arte, e arte suprema. E si resta senza parole, muti d’emozione e infine grati, come Eugenio Montale davanti alla sua Violetta: «Bisognerebbe scrivere molte pagine per illustrare ciò che ella ottiene in “Dite alla giovine” cantando come una cosa morta, come uno straccio inanimato».

LA STAMPA

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