Gli errori sullo ius soli: le leggi non sono uno slogan

«La buona merce bisogna anche saperla vendere», raccomandava Silvius Magnago. Ma come potrebbe mai uno come Matteo Renzi seguire i consigli lasciati dal mitico leader sudtirolese? E insiste sullo «ius soli», «ius soli», «ius soli». Un’insistenza suicida. Che sventola il drappo rosso sul muso del toro razzista e fa danni a una battaglia sulla cittadinanza sacrosanta e condivisa, con le parole giuste, da milioni di italiani.

Certo, il segretario pd sa bene che la legge arenatasi al Senato è semmai uno «ius soli temperato», mediato con lo «ius culturae», e ogni tanto si ricorda perfino di sottolinearlo. Ma in un mondo in cui Twitter, gli slogan lampo e la sintesi estrema del digitale faticano a tollerare le parole un po’ lunghette, uno come lui finisce fatalmente per serrare idee complesse in formule così sincopate da rischiare lo stravolgimento. Dirà: non sono io ma gli altri a sintetizzar tutto nelle tre sillabe «ius soli». Non è così. Lo dicono i suoi tweet. Lo dicono i suoi video. Tre giorni fa al Mattino di Napoli: «Lo ius soli è un dovere sacrosanto…». Testuale.

Senza precisare che la legge non darebbe affatto la cittadinanza automatica a chi nasce qui in Italia e che sarebbero comunque previsti vari paletti come l’obbligo per i genitori dei bambini che chiedono la cittadinanza di avere in tasca il permesso di soggiorno di lungo periodo o il requisito che il minore abbia completato un ciclo scolastico e così via…

Condizioni alle quali sarebbe opportuno aggiungere ritocchi come quelli suggeriti da Ernesto Galli della Loggia per correggere certe storture, come l’assenza di ogni «accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana». Una concessione, insomma. Priva del «forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle». E priva soprattutto di qualunque impegno dell’aspirante cittadino italiano nei confronti dell’Italia.

A farla corta: buttar lì la frase «lo ius soli è un dovere sacrosanto…» senza il minimo distinguo è un errore. Grossolano. Perché dà per scontato che tutti gli italiani (ma quando mai!) conoscano quei distinguo. Perché rafforza le tesi di chi, per motivi di bottega, cavalca la tigre xenofoba con toni belluini: «Loro stessi chiamano la legge per quella che è: l’imposizione dello ius soli!». Ma più ancora semina dubbi, in un momento di massima tensione per gli sbarchi (vallo a spiegare che le due cose sono distinte…) tra milioni di cittadini che erano largamente a favore a una apertura.

Rileggiamo il comunicato dell’11 luglio 2012: «Il 72,1% degli italiani è favorevole al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese. Il91,4% ritiene giusto che gli immigrati, che ne facciano richiesta, ottengano la cittadinanza italiana dopo un certo numero di anni di residenza regolare nel nostro Paese». Eppure c’erano già allora gli sbarchi (meno, ma c’erano: oltre 60mila nel 2011), già allora le polemiche sui soldi dati a cooperative e albergatori, non di rado squali affamati, che si offrivano di ospitare i profughi, già allora i seminatori di odio razzista dediti a cavalcare elettoralmente le paure.

Dice oggi Matteo Renzi, dopo il sondaggio Ipsos di Nando Pagnoncelli che ha visto il crollo dei favorevoli al 44%: «Non rinuncio a un’idea per un sondaggio». Ma il punto è: come è stato buttato via quel patrimonio di buon senso degli italiani che sapevano distinguere benissimo tra il tema dei bambini nati in Italia e quello delle ondate di sbarchi? Non sarà anche per i toni muscolari con cui si è cercato di far passare pure questa legge (la minaccia della fiducia!) e per l’incapacità di usare le parole giuste?

Anche chi è assolutamente favorevole a una legge sulla cittadinanza, sacrosanta, può legittimamente essere contrario allo ius soli così come storicamente inteso: è cittadino di un paese chiunque nasca in quel paese. Non ora, non qui, non alle prese con fenomeni demografici che preoccupano anche gli studiosi meno ansiosi e spaventano larghissima parte degli italiani. Da rassicurare e convincere.

La storia del resto, come spiegano Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio «L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale», dimostra che non esiste un sistema perfetto. In vari paesi africani dopo l’indipendenza, compreso il Congo di Cécile Kyenge che per prima seminò sconcerto parlando del passaggio dallo «ius sanguinis» allo «ius soli» senza spiegare «come», chi aveva lo ius soli l’abolì all’istante per passare allo ius sanguinis prevedendo in vari casi l’«obbligo» di pelle nera. Una ripicca razzista al razzismo dei colonizzatori.

I numeri dicono che nel 1948 lo ius soli, scrivono le due studiose, era «applicato nel 47% circa dei paesi (76 paesi su 162), lo ius sanguinis nel 41% (67 paesi)» e il misto nel 12% rimanente. Tra i paesi dove il neonato nel territorio patrio era automaticamente un cittadino c’erano allora «gli Stati Uniti, il Canada, tutti i paesi dell’Oceania, la maggior parte dei paesi dell’America Latina, le colonie inglesi e portoghesi in Africa e Asia e, in Europa, Regno Unito, Irlanda e Portogallo». Da allora però solo gli States hanno conservato lo ius soli puro. Gli altri, spiegano ancora Bertocchi e Strozzi, davanti alle paure per le ondate migratorie che rischiavano di scatenare reazioni xenofobe destinate a nuocere agli stessi immigrati, hanno cambiato via via le regole. Meglio il sistema misto. Un percorso di buon senso imboccato sul fronte opposto da tanti paesi dove vigeva lo ius sanguinis. Fatto sta che dopo l’abbandono dello ius soli puro in Irlanda, la maggioranza dei paesi europei vede oggi un sistema misto. Più o meno aperto, ma misto.

Un punto però appare chiarissimo a chi abbia a cuore il diritto alla cittadinanza, con regole sagge e certe, di chi già è di fatto e si sente italiano. Lo scrive su lavoce.info di tre anni fa, profetica, la stessa Graziella Bertocchi: «Non starò qui a ripetere i tanti buoni motivi per introdurre elementi di ius soli. Una raccomandazione che però mi sentirei di fare è di introdurre innovazioni solo se largamente condivise». «Solo se». Così che possano «sopravvivere agli sviluppi politici per anni e anni a venire». In tutta onestà: se lo sono posti davvero tutti, questo obiettivo

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