Voto e Brexit Perché quest’isola ci riguarda

Visto dall’Europa, l’annuncio delle elezioni anticipate fatto da Theresa May il 18 aprile era un non-evento. Il Vecchio Continente aveva ben altro di cui preoccuparsi. Il voto francese era alle porte, col rischio di una vittoria di Marine Le Pen. Quello tedesco di settembre era pure gravido di aspettative, dato il ruolo centrale assunto dalla Germania. A Londra la prospettiva era quella di una ampia conferma del governo in carica: insomma, si trattava più che altro di un regolamento di conti all’interno dei conservatori, roba confinata nei corridoi di Westminster. Beh, non è andata così. È inutile sbilanciarsi in previsioni in questo momento. Ma la storia di questa campagna elettorale è la débâcle di Theresa May e l’improbabile rimonta di Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione laburista. La premier britannica era partita con un vantaggio di venti punti percentuali: ora il distacco si è ridotto a una manciata di voti. E c’è chi pronostica addirittura che potrebbe perdere l’attuale maggioranza parlamentare. Resta improbabile che Corbyn faccia il suo ingresso a Downing Street. Ma a essere ricondotta al governo potrebbe essere una May fortemente indebolita, gravata dalla scommessa perduta di poter ottenere una valanga di seggi tale da eguagliare i trionfi di Margaret Thatcher. Comunque sia, il prestigio della leader del governo è uscito intaccato. Ha condotto una campagna malaccorta, costellata di gaffe e marce indietro.

Ma dal 9 giugno sarà lei, verosimilmente, a condurre i negoziati con Bruxelles per la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. E rischia di essere una premier sotto assedio nel suo partito e sottoposta alle pressioni dell’ala estrema euroscettica. Il risultato: la possibilità concreta di una Brexit disordinata e disastrosa.

Tutto questo ci riguarda direttamente. Innanzitutto perché ci sono tre milioni di cittadini europei che risiedono in Gran Bretagna. Dei quali circa seicentomila sono italiani. E che potrebbero diventare moneta di scambio in un pericoloso braccio di ferro tra Londra e Bruxelles. Poi c’è lo scompiglio possibile nei rapporti commerciali e nelle transazioni finanziarie, con l’imposizione di dazi e dogane e lo sconvolgimento della catene di distribuzione. Un sovvertimento che avrebbe un impatto sul Pil britannico ma anche su quello dei Paesi europei.

Infine la questione della sicurezza. Gli attentati di questi ultimi due mesi, da Londra a Manchester, hanno dimostrato che non è possibile chiamarsi fuori dal fronte del terrore. Dopo le bombe nella metropolitana del 2005, che avevano provocato oltre cinquanta morti, la Gran Bretagna sembrava essere stata risparmiata dagli orrori che hanno insanguinato le città europee, da Parigi a Nizza, da Berlino a Bruxelles. Le stragi degli ultimi giorni sono state un brusco richiamo alla realtà. Nessuno può dirsi immune dalla furia jihadista.

Ma anche in questo caso una Brexit nella sua versione radicale metterebbe a repentaglio quella collaborazione sul piano della sicurezza e dell’intelligence che è vitale nel contrasto a un terrorismo che non conosce confini. Come il caso del killer del London Bridge di origini italiane sta a illustrare.

Gli attentati degli ultimi giorni e le conseguenze future del voto dimostrano che, a dispetto della geografia e delle fantasie degli estremisti della Brexit, la Gran Bretagna non è un’isola. E che quanto sta accadendo al di là della Manica ci tocca da vicino.

CORRIERE.IT

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