La guerra ai terroristi si fa con le parole giuste

Dice Theresa May, premier britannico, che «quando è troppo è troppo». E il ministro degli Esteri Boris Johnson promette che «ai terroristi non sarà consentito di distruggere la nostra democrazia». Per poi aggiungere: «Oggi milioni di londinesi continueranno la loro vita, andranno al pub, al museo, nei parchi, a vedere spettacoli e questa sarà la miglior risposta». Quante volte abbiamo ascoltato queste parole? In genere il leader di turno conclude con annunci di «reazioni durissime». «Spietate» specificò l’allora presidente francese François Hollande il 13 novembre 2015 dopo la strage del Bataclan. E il saggista inglese Niall Ferguson così commentò: «Non gli credo … questa l’ho già sentita, poi in genere quando la situazione comincia a girare per il verso sbagliato ecco che su entrambe le sponde dell’Atlantico emergono le riserve dell’opinione pubblica … Altro che spietati, quando lo siamo stati davvero nei nostri Paesi si gridava allo scandalo».

Effettivamente la prima cosa che una donna o un uomo di governo dovrebbero fare nei minuti successivi a un attentato come quello di sabato notte al Borough Market è pronunciare sì parole di cordoglio ma evitare di promettere ritorsioni che tutti sappiamo non essere praticabili. Ci basta sapere che negli ultimi mesi in Gran Bretagna su otto attentati ne sono andati a segno solo tre e gli altri sono stati sventati. E sarebbe più saggio non dare l’illusione che da adesso in poi, grazie a chissà quale svolta, di atti terroristici non ne vedremo più. E meglio ancor più, raffinare le analisi di un fenomeno che ci accompagnerà per chissà quanti anni ancora. Sotto questo profilo fu più efficace il predecessore della May, David Cameron, che in due importanti discorsi (giugno e luglio del 2015, il primo in Slovacchia, il secondo a Birmingham) chiese agli islamici inglesi cosa avrebbero fatto per aiutare le autorità di polizia a combattere i terroristi, ricordò che musulmani venivano sistematicamente uccisi da altri musulmani e spiegò come, a parer suo, fosse sbagliato continuare a dire che «l’integralismo è frutto dei nostri errori o della povertà».

La guerra al terrorismo oggi, eccezion fatta per coloro che indossano una divisa, andrebbe combattuta principalmente sul piano culturale. Ed è un conflitto tra noi e noi, prima ancora che tra noi e «loro». Il confronto militare con «loro», cioè con Daesh, ha tempi più lunghi di quelli che – sprovvisti di un’adeguata conoscenza – siamo stati indotti a supporre. Ne è riprova la «liberazione» di Mosul iniziata lo scorso 17 ottobre e presentata all’epoca sui media come qualcosa che sarebbe stata portata a termine nel giro pochi giorni. Adriano Sofri che ha seguito la vicenda sul campo già in novembre aveva puntato l’indice contro «un giornalismo mediamente cialtrone» che aveva dato Mosul per conquistata già a fine ottobre «quando la forza speciale antiterrorismo irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis». Dopodiché l’avanzata non aveva fatto sostanziali passi avanti e a volte ne aveva «fatti indietro». Questo a metà novembre. Siamo a giugno e Mosul non è stata ancora definitivamente liberata.

Ma, dicevamo, ciò che ci compete non è improvvisarci strateghi militari né a Mosul, né qui in Europa. Chi sostiene di avere soluzioni militari pronte per l’uso – sia qui che lì – è un ingenuo semplificatore o, peggio, un imbroglione. L’unica cosa che possiamo fare (e che ci compete) è approfondire la discussione sulle categorie a cui facciamo ricorso per affrontare una questione – quella del radicalismo islamico – che ormai ci accompagna da oltre un quindicennio. Qui sembra che il Paese che, sotto questo aspetto, ha fatto più passi avanti sia la Francia. Si pensi a Gilles Kepel che fece notare come l’ottantaseienne sacerdote Jacques Hamel fosse stato sgozzato nel luglio scorso a Saint-Étienne-du-Rouvray (Rouen) da un diciannovenne. Un ragazzo che aveva appena trascorso un anno in carcere per aver cercato di andare in Siria e che era stato da poco liberato per buona condotta. Quando entrò in prigione – ha sottolineato Kepel – quel ragazzo non sapeva quasi nulla della Jihad, ma ne è uscito islamizzato dalla testa ai piedi e con la volontà di uccidere.

Si pensi a Jean Birnbaum il quale ha scritto che a confonderci le idee sono in campo due illusioni complementari: la sinistra vede gli jihadisti come poveri; la destra li confonde con gli immigrati. Ma l’essenza della religione è quella di essere senza paese o confini. Il Jihadismo è una causa la cui influenza è così potente che può inghiottire un giovane cresciuto nella campagna francese o uno studente brillante che proviene da una famiglia cristiana. Birnbaum, nel libro «Un silence religieux. La gauche face au djihadisme» (Seuil) ha definito «rienavoirisme» la tesi secondo cui il terrorismo islamico non ha niente a che vedere («rien à voir») con la religione. Polemizzando sia pure velatamente con papa Francesco.

In Francia si è più discusso sul «ricatto dell’islamofobia»: così lo ha definito Alain Finkielkraut per il quale il concetto è ricalcato su quello di antisemitismo, sicché non se ne riesce a capire la specificità. Di più, sostiene Finkielkraut che tale «analogia occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista». Quando a Colonia a Capodanno del 2016 gruppi di ragazzi musulmani molestarono ben mille e duecento donne di ogni età in un’azione evidentemente coordinata, in Francia ci fu chi cercò di minimizzare. Elisabeth Badinter in quell’occasione definì «scioccante» tale «negazione da parte di alcune femministe militanti francesi che hanno preso le difese degli aggressori anziché delle vittime». «Sono quasi trent’anni – disse apertamente – che cediamo spazi all’islam radicale per paura di passare per islamofobi… Siamo sempre stati zitti perché c’è il terrore di fare il gioco dei razzisti e dei partiti di estrema destra». Ed è sbagliato: «È negando la realtà che si nutrono razzismo ed estrema destra e che si perde la fiducia della gente».

Secondo il filosofo Michel Onfray il termine «islamofobia» sarebbe addirittura da bandire. Non corrisponde a niente di realmente esistente, sostiene Onfray, nel libro Penser l’Islam, «è un concetto polemico utilizzato per impedire ogni riflessione sull’islam che non sia un pensiero di reverenza». Siamo in presenza di un anti-islamista militante? No. Lo scorso settembre Onfray dichiarò alla televisione Russia today che il fatto che la comunità musulmana fosse in collera contro l’Occidente gli sembrava «del tutto legittimo; l’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo – proseguiva Onfray – ma crea il terrorismo attaccando». E una sua frase, «dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane», finì addirittura in un video Isis di rivendicazione degli attentati di Parigi. Abbiamo l’impressione che le proclamazioni stentoree non si accompagnino, in genere, a discussioni approfondite. Anzi, spesso è l’opposto. Coloro che ad ogni attentato incitano a continuare a vivere come si faceva prima e nel contempo annunciano l’uso, «da questo momento», di maniere forti (non si sa né dove, né contro chi) dicono cose che da tempo hanno perso di senso. Meglio affidarci a chi non offre soluzioni e propone riflessioni. Almeno, forse, faremo qualche passo avanti e non rimarremo inchiodati al punto in cui siamo fermi da anni.

CORRIERE.IT

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