Boschi, la diplomazia bancaria e il silenzio-accusa di Ghizzoni

di MASSIMO GIANNINI

Laterina non è Arcore. Questo lo vede anche un cieco. Nella storia repubblicana nulla è paragonabile con la dismisura totale del potere berlusconiano. Ma vent’anni di relazioni pericolose tra poteri pubblici e interessi privati qualche traccia l’hanno lasciata. Anche nella Grande Banalizzazione con la quale si tenta di troncare e sopire il caso Boschi.

La rivelazione di Ferruccio de Bortoli è sempre lì, e grava come un macigno sul Giglio Magico: “L’allora ministra delle Riforme, nel 2015, non si fece problemi a rivolgersi direttamente all’ad di Unicredit, per chiedergli di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria”, di cui il padre Pierluigi era vicepresidente. È ormai passata un settimana, da quando l’uscita del libro dell’ex direttore del Corriere della Sera ha gettato un’ombra di sospetto sull’auto-difesa della stessa Boschi, che nel dicembre 2015 alla Camera respingeva la mozione di sfiducia giurando “…si dimostri che io ho favorito mio padre o che sono venuta meno ai miei doveri istituzionali e sarò la prima a lasciare l’incarico… “.

Da allora, l’unica persona che con una sola parola può rimuovere quel macigno, e fugare quel sospetto, si ostina a tacere. È Federico Ghizzoni, il manager che secondo la ricostruzione di de Bortoli raccolse la richiesta d’aiuto della Boschi per la banca del papà. L’ex amministratore delegato di Unicredit è un privato cittadino, ma a questo punto ha il dovere civico di parlare. E invece non lo fa. Così il suo “no comment” diventa sempre più fragoroso. E il suo silenzio somiglia sempre di più a un assenso. Del resto, non si vede proprio perché uno dei più autorevoli giornalisti italiani avrebbe dovuto inventare una notizia di questa portata.

Renzi ribadisce oggi il suo “storytelling”. Ma la “Matteo’s Version”, affidata alle colonne amiche del Foglio (il giornale che lo incoronò anzitempo “Royal Baby”) è insieme elusiva ed evasiva. La versione è elusiva perché, dicendo “de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent’anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina”, Renzi finge di non capire qual è il cuore della questione Boschi-Etruria, cioè quel conflitto di interessi che era chiarissimo fin dall’inizio. Cioè da quando Maria Elena divenne ministra per le Riforme, nel febbraio 2014, e di lì a poco il padre Pierluigi, consigliere dal 2011, fu “promosso” vicepresidente di Etruria. Che quel groviglio convenisse scioglierlo già allora lo vedeva chiunque. Tranne un potere giovane e arrembante, forse accecato da un’epifania troppo fulminea. Ma la versione è anche evasiva perché, aggiungendo “che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di pulcinella”, Renzi sorvola sugli atti attribuiti alla sua ministra intorno a quel dossier.

Sono tante le domande sulla presunta “diplomazia bancaria” della Boschi, che esigerebbero invece una risposta definitiva. È vero (come ha scritto il Fatto) che già nel marzo 2014 la ministra e suo papà nella loro villa di Laterina incontrarono il presidente di Etruria e i vertici di Veneto Banca, per concordare una “resistenza” rispetto ai tentativi di acquisizione da parte della Popolare di Vicenza? È vero (come ha scritto de Bortoli nel suo libro) che nel gennaio 2015 la ministra chiese a Ghizzoni un intervento di Unicredit su Etruria, e che la manager Marina Natale fu incaricata di aprire un dossier per valutare l’acquisto, salvo poi richiuderlo con “parere negativo”? È vero (come ha scritto la Stampa) che nel febbraio 2015 l’allora neo-presidente di Etruria, Rosi, ebbe a sua volta un altro incontro con Ghizzoni (“facilitato da qualcuno…”) per tentare un ultimo affondo sul salvataggio da parte di Unicredit? E dunque, la ministra ha mentito all’assemblea di Montecitorio? E se ha mentito, può restare al suo posto nel governo Gentiloni?

Sono interrogativi che galleggiano nel vuoto. Sospesi tra l’evidenza delle ricostruzioni giornalistiche e la “macchina del fango” lamentata dalla Boschi. Interrogativi che la “confessione” di Graziano Delrio rende persino più pressanti. L’ex sottosegretario a Palazzo Chigi ammette di aver chiamato all’inizio del 2015 l’allora presidente della Bper, Caselli, per chiedergli di “valutare un soccorso dei quattro istituti”. E quando aggiunge “un interessamento della presidenza del Consiglio era naturale “, Delrio ha perfettamente ragione. Non c’è nessuno scandalo, se un governo cerca soluzioni per impedire “crisi sistemiche”. Ma solo qualche anima candida può mettere sullo stesso piano Delrio e la Boschi. Il primo ha agito nel rispetto del suo compito istituzionale (esercitato ugualmente per Ilva o Alitalia). La seconda avrebbe agito in palese conflitto di interessi (certificato inutilmente dalla riforma Frattini del 2004).

Torniamo così al punto di partenza. Alla lezione del Cavaliere, che un Paese indolente non ha imparato. Alla legge dello Stato, che un governo inadempiente non ha applicato. Alla missione del giornalismo, che una politica arrogante non ha rispettato. Ora, in attesa che Ghizzoni si decida finalmente a raccontare la verità, rimane solo la Commissione parlamentare d’inchiesta, che le due opposte tifoserie stanno già trasformando nella Santa Inquisizione bancaria. Un rito focoso, ma inutile. Sul rogo non ci finirà nessuno.

REP.IT

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