L’opa dei Cinquestelle sul lavoro

Il Primo Maggio del 2017 coglie il sindacato in un momento
di grave difficoltà. Il referendum Alitalia, gestito peraltro in maniera timida e rassegnata, ha rappresentato per Cgil-Cisl-Uil una sonora sconfitta che ha pochi precedenti e che sta generando nelle organizzazioni un profondo malessere. Testimoniato dalla sortita di uno dei tre leader, Annamaria Furlan, che per spiegare
l’accaduto ha fatto autocritica: «Abbiamo noi stessi scatenato il populismo sindacale». La lingua batte dove il dente duole, è in corso infatti da parte del movimento di Beppe Grillo un’Opa sul mondo del lavoro che trova retroterra e legittimazione nel responso dei sondaggi secondo i quali tra gli operai che i Cinquestelle sono di gran lunga il primo partito.

Un’Opa che mira a riservare ai sindacati lo stesso trattamento liquidatorio applicato ai partiti, casta dopo casta. Lo dimostrano i toni di Luigi De Maio che ha tuonato contro i troppi passaggi dei leader confederali in politica, criticato i trattamenti di favore fiscale riservati ai Caf/patronati e soprattutto ha proposto un programma per il lavoro imperniato su due proposte-chiave, il reddito di cittadinanza e la riduzione dell’orario di lavoro. Molte delle idee sostenute dai grillini sono frutto dell’intenso confronto con il sociologo Domenico De Masi, che da parte sua nel tempo ha maturato una visione fortemente pessimistica dello scenario economico, esplicitata nel suo
ultimo libro.

Che si apre non a caso con un tributo alla saggista francese Viviane Forrester e al suo pamphlet («profetico») sull’orrore economico. Nel libro di De Masi si possono rintracciare molte suggestioni e provocazioni intellettuali come quella in cui il sociologo ammonisce la «buona borghesia» ricordandole di essere andata al potere «ghigliottinando 23 mila aristocratici durante la Rivoluzione francese» e invitandola di conseguenza a non «bollare scandalizzata chi oggi sfoga la propria rabbia fracassando la vetrina di una banca in piazza Affari o di una boutique in via Condotti».

Nella visione della società moderna che hanno i grillini non c’è posto per il sindacato, la dottrina dell’«uno vale uno» non prevede mediazioni o filtri e questo vale per Cgil-Cisl-Uil così come per i giornalisti. Le confederazioni, dal canto loro, finora hanno sottovalutato l’offensiva di Grillo e Di Maio riparandosi dietro una lettura consolatoria. Il grillismo è stato catalogato come un fenomeno transitorio, destinato a sciogliersi come neve al sole davanti alla prova dell’amministrazione e questa incomprensione ha portato il sindacato a sottostimare nel frattempo la diffusione dell’egemonia Cinquestelle nelle proprie file. Nessuno lo confessa apertamente ma si contano a decine i dirigenti sindacali favorevoli al movimento e del resto lo slittamento progressivo della cultura del No, la politicizzazione identitaria impressa dalla Cgil a scapito del mestiere sindacale, hanno finito per creare un clima favorevole alla diffusione del populismo tra i quadri e gli attivisti. Agli attacchi di Di Maio hanno replicato solo Marco Bentivogli e Maurizio Landini, che pur con contenuti diversi, hanno quantomeno ribadito la loro opposizione davanti alla democrazia dei clic e la necessità di rilanciare la contrattazione così come è accaduto per il contratto collettivo dei metalmeccanici.

Negli ultimi giorni, e soprattutto in Cisl, per effetto della scoppola Alitalia lo spirito di appartenenza sembra essersi risvegliato ma non basta il patriottismo organizzativo per immunizzarsi dal grillismo, per non fare la fine dei partiti ed essere soppiantati dalla piattaforma Rousseau i confederali devono dare risposte di merito sulle policy, devono assumersi quelle responsabilità che in Alitalia hanno affrontato in maniera riluttante. Purtroppo rispetto a questi compiti risalta la debolezza del gruppo dirigente confederale che sembra spaurito, proprio mentre si profilano nuove sfide come la contrattazione nelle fabbriche 4.0 e più sullo sfondo il nuovo ciclo dell’automazione taglia-posti. Manca al sindacato una bussola per interpretare i cambiamenti e di conseguenza anche le scelte latitano. Occorrerebbe ripensare le relazioni industriali e costruire un nuovo codice di scambio con le imprese che andrebbero considerato non più il nemico di ieri ma quasi un compagno di strada. I tedeschi hanno costruito la loro forza sistemica anche perché hanno elaborato una straordinaria narrazione, l’economia sociale di mercato, capace di rendere compatibili valori un tempo giudicato inconciliabili.

Un saggio dirigente confederale come Bruno Manghi sostiene che l’Opa di Grillo non riuscirà, che i Cinquestelle non hanno il fisico per spezzare le reni al sindacato come fece la Thatcher con i minatori e che invece il pericolo più grande per Cgil-Cisl-Uil è di rimanere da soli a confrontarsi con i problemi reali. Non so se Manghi anche questa volta avrà ragione ma c’è un legame stretto tra la battaglia contro la disintermediazione e le scelte da fare. Ed è questo nesso che il sindacato fatica ad afferrare, non riesce a prendere il toro per le corna e dire apertamente che il reddito di cittadinanza è una misura impossibile per gli enormi costi che si porta dietro. Non riesce neanche a replicare che la soluzione della riduzione d’orario in un Paese solo — l’Italia — avrebbe l’effetto di mettere fuori gioco persino le nostre imprese migliori e le spingerebbe a delocalizzare di nuovo. L’Opa di Grillo quindi, al di là della praticabilità delle sue ricette, è per il sindacato una chiamata alla responsabilità, o ci si rinnova o si rischia di essere spazzati via.

CORRIERE.IT

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