Il Novecento senza fine della sinistra

Giovanni de Luna
 

L’ipotesi di scissione del Pd ha richiamato l’attenzione su quello che succede a sinistra del partito di Matteo Renzi e su una anomalia tutta italiana. In molti Paesi europei (ultima la Francia con Benoît Hamon) si registra infatti una netta inversione di tendenza rispetto alla linea moderata con cui la sinistra si era avventurata in percorsi che ne avevano progressivamente logorato l’impianto programmatico e il rapporto con i suoi elettori.

 Niente di simile sta avvenendo in Italia, dove la stessa scissione ipotizzata da Bersani e D’Alema non ha niente da spartire con le esperienze di Tsipras in Grecia o di «Podemos» in Spagna e nemmeno con le scelte del partito laburista di Corbyn. A rendere sterili tutti i tentativi in questo senso ha contribuito certamente l’affermazione – anche questa tutta italiana – dei 5 Stelle.

Il partito di Grillo è stato infatti in grado di rappresentare efficacemente una parte delle rivendicazioni e delle istanze programmatiche della sinistra alternativa; si tratta però di una formazione politicamente spuria, che mette insieme spinte xenofobe e speranze ugualitarie, pulsioni autoritarie e slanci di democrazia diretta. Questo fa pensare che la spiegazione vada trovata più indietro nel tempo e che si tratti di una tipica eredità di un passato novecentesco ancora molto presente. Noi abbiamo avuto il più forte Partito comunista dell’Europa occidentale e il nostro ’68 è stato il più lungo di tutti.

La linea del Pci nei confronti dei movimenti correva su un doppio binario: da un lato si trattava di combattere con tutti i mezzi l’affermazione di una qualsiasi forza politicamente credibile che potesse insidiarne la leadership; dall’altro di svuotarne le rivendicazioni dall’interno, proponendosi come l’unico sbocco istituzionale delle istanze più radicali che affioravano nel conflitto sociale. Questa scelta si è dimostrata molto efficace: non solo a sinistra del Pci non si è mai affermata un’alternativa credibile, ma si è anche consolidata una sorta di tacita delega per cui i movimenti si «accontentavano» di una presenza significativa nei momenti più acuti dello scontro sociale, trascurando del tutto i risvolti parlamentari delle loro iniziative politiche.

 

Poi le cose sono cambiate. Negli ultimi venti anni, l’intero asse del sistema dei partiti si è progressivamente spostato verso destra; le forze di più autentica ispirazione liberale sono state soppiantate da formazioni reazionarie, xenofobe, populiste; la sinistra si è trovata così quasi automaticamente sospinta ad occupare le posizioni di un centro moderato e riformista lasciate sguarnite da quella deriva estremista, in molti casi ereditando – come è successo a Torino – anche il vecchio elettorato liberale e borghese. Pure, nonostante il Pci si fosse dissolto da tempo, il fatto che tutto intero il suo gruppo dirigente fosse approdato indenne ai fasti della Seconda Repubblica, ricoprendo anche le massime cariche politiche e istituzionali (dalla presidenza della Repubblica a quella del Consiglio), ha alimentato la falsa sensazione che quella delega fosse ancora in vigore: la «Pantera», i «girotondi», il «milione in piazza» per Cofferati, «Se non ora quando», etc…, tutte queste accensioni si sono spente da sole, dopo aver sperato invano di trovare una credibile sponda parlamentare nelle forze che ora sono nel Pd. Questa storia adesso presenta il conto e ne mette in luce la pesante eredità. Il banco di prova di una qualsiasi sinistra alternativa che voglia occupare le praterie lasciate sguarnite dal Pd è proprio quello di dotarsi una credibile proposta politica e istituzionale senza snaturare la sua natura «movimentista».

 

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