I nuovi conservatori tra via Bellerio e l’Est

Non sappiamo quanto pesino sulla campagna elettorale le notizie sulle relazioni pericolose tra la Lega e la Russia, tra il Capitano e lo Zar, tra l’inner circle del leader e l’entourage del Presidente. È anche probabile che le indiscrezioni e le intercettazioni, chiunque le abbia ordinate e poi effettuate, polarizzino ancora di più gli schieramenti: i militanti ancora più schierati, a difesa del condottiero sotto attacco, i nemici ancora più convinti, all’assalto del traditore. Rimane il fatto che Salvini non ha ancora detto tutta la verità, e che intorno al suo passato ostinatamente russofilo, e al suo presente sorprendentemente pacifista, restano ancora tante, troppe zone grigie da illuminare. Ma soprattutto, in prospettiva, rimane un dubbio. Se la destra vincerà le elezioni, cosa succederà dal 26 settembre in avanti? Il Capitano, probabile vicepremier e sicuro titolare degli Interni, riferirà al Cremlino tutto ciò che accade nel Consiglio dei ministri, in ossequio al famoso «accordo programmatico di collaborazione» con Mosca? E come posizionerà la sua Lega, quando a Roma si dovranno approvare altri decreti di fornitura delle armi all’esercito ucraino, costretto a rispondere ai bombardamenti dei carnefici russi ancora per molti mesi, o quando a Bruxelles si dovranno deliberare altre sanzioni a Putin, sfiorato soltanto dagli embarghi varati finora?

La «destra di governo», che prova a rinascere dalle sue ceneri di «destra di lotta», ha ancora molto da spiegare al Paese. I famosi e fumosi «quindici punti» programmatici sono un rebus. Si parla di presidenzialismo, si riparla di federalismo, come fossero opzioni qualunque di un assetto istituzionale «a la carte», mentre assumono una valenza eccezionale in un Parlamento nel quale la maggioranza nero-verde potrebbe avere più dei due terzi dei seggi, e dunque potrebbe cambiare la Costituzione senza nemmeno dover passare da un referendum confermativo. Non è questione da poco. Anche dal punto di vista identitario, come ha scritto Giovanni De Luna, non sappiamo in quale modo si compongono la voglia di «donna forte» e quella vena di fascismo eterno come «biografia della nazione», che innerva ancora la base elettorale di Meloni, con il sovranismo lepenista caro al Capitano leghista e il liberalismo alla milanese proprio del tele-venditore di Arcore. Anche qui, procediamo per indizi. E se stiamo alle ultime esternazioni della Sorella d’Italia, si può forse cogliere una novità sulla quale bisognerà riflettere.

Questa anomala destra italiana sembra ormai aver rinunciato a qualunque velleità di modernizzazione. Nessuno dei leader evoca più la «rivoluzione liberale». Tutti parlano invece il linguaggio della «conservazione». Meloni lo fa in modo esplicito, rispolverando la triade del Ventennio, «Dio, Patria, Famiglia». C’è un filo nero, che unisce questa narrazione culturale non solo a Orban, ma persino allo stesso Putin. Il messaggio conservatore parte dalla denuncia del declino economico e della decadenza morale dell’Europa, incrocia il rifiuto dell’Islam e arriva alla condanna del gender e dei matrimoni gay come minaccia ispirata da un gruppo di irriducibili ultra-modernisti multicolori e senza valori. Al di là dei «toni sbagliati» che lei stessa ha riconosciuto, al fondo il vero manifesto politico di Giorgia è quello urlato dal palco dei filo-franchisti di Vox: l’Italia e l’Europa devono tornare e restare fedeli alle radici cristiane, e la difesa dei principi e dei valori tradizionali è la coperta di Linus che suggerisce «protezione» e che copre tutte le contraddizioni passate, presenti e future. Dunque, la nazione e i confini, il «foedus» e il sangue, lo Stato etico e la sua religione, il dirigismo economico e la società chiusa. Una cesura netta rispetto alla Democrazia cristiana che abbiamo conosciuto per cinquant’anni e alla destra laica, liberale e libertaria che aspettiamo da venti. Una controrivoluzione in nome della difesa delle tradizioni, che al momento appare molto ideologica e assai poco dinamica. Troppo demagogica e per niente «elastica» (per usare la formula di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di domenica scorsa). Per adesso, nel «conservatorismo» della nuova destra tricolore, più che l’elastico si vede la frusta.

LA STAMPA

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