I nuovi conservatori tra via Bellerio e l’Est

MASSIMO GIANNINI

Mancano quarantanove giorni alle elezioni del 25 settembre. Nell’agosto più caldo di sempre, aspettiamo con ansia di capire se e quanto reggerà la «tragicommedia minore» del centrosinistra, che le baruffe chiozzotte tra Letta, Calenda, Fratoianni e Bonelli, Tabacci e Di Maio rischiano di trasformare in una recita estiva dell’asilo Mariuccia. Presentare la litigiosa macchina da guerra come una «alleanza elettorale», precisando che non è un «patto di governo», fa temere il peggio. Nel frattempo ci interroghiamo da giorni sulla natura, la cultura e la statura di questa anomala destra italiana, che si dichiara pronta a governare il Paese undici anni dopo la rovinosa caduta del 2011. Sono usciti di scena i Casini e i Follini, i Fini e i Bossi, e oggi come allora il nuovo «Polo» colpisce unito, ma marcia diviso. Stiamo cercando di capire qual è il progetto sulla politica economica, e in che modo si conciliano i 70 miliardi di risorse pubbliche che contemplava il vecchio piano di Meloni, i «50 miliardi da mettere nelle tasche degli italiani» che pretende Salvini, i «1000 euro al mese per le nostre mamme casalinghe» che spara Berlusconi. Per ora l’unica cosa chiara, come hanno scritto Veronica De Romanis e Marco Zatterin, è che i tre alleati un partito unico, inerziale e trasversale, l’hanno già fondato: si chiama #Forzadebito.

Stiamo cercando anche di comprendere qual è il piano sulle politiche migratorie. Meloni rilancia i «blocchi navali», che com’è noto l’Europa ha già bocciato più volte perché violano le norme del diritto internazionale, e ripropone accordi con la Libia per creare gli hotspot e stabilire laggiù chi ha diritto d’asilo e chi no.

Altra proposta impercorribile per mancanza di presupposti giuridici e per assenza di uno Stato sovrano con cui trattare, visto che il territorio libico resta spaccato in due tra Cirenaica e Tripolitania. Salvini va più per le spicce, come sempre: cinguetta su twitter la cacciata di «clandestini e finti profughi, spacciatori e stupratori, dal 26 settembre tutti a casa», e poi da Lampedusa, dritto sul cassero in braghette a strisce bianche e blu, naviga minaccioso verso il Viminale, candidando commissario ad acta per l’immigrazione il generale Figliuolo, onusto di gloria per la campagna vaccinale, o l’apposito Bertolaso, pluridecorato per qualunque emergenza nazionale. In presenza di cotanto caos, come hanno scritto Annalisa Cuzzocrea e Karima Moual, l’unica cosa chiara la dice Berlusconi. Prima si intesta inopinatamente il merito di aver portato in Italia i 200 miliardi del Pnrr, probabilmente con la forza del pensiero, visto che quando i capi di Stato e di governo negoziavano il Next Generation Eu a Bruxelles lui per paura del Covid svernava nella lussuosa villa di famiglia a Chateauneuf-de-Grasse. Poi annuncia che la vittoria della destra garantirà «un nuovo miracolo italiano». E qui, avendo già dato due volte, per molti concittadini scattano i dovuti scongiuri.

Ma le Ombre Russe che tornano a oscurare l’immagine della Lega, dopo i sei lunghi mesi di guerra in Ucraina, confermano che il vero buco nero della triplice alleanza nazional-populista è la politica estera. Ne siamo consapevoli: non è un tema che sposta milioni di voti. Interessa molto le élite, appassiona poco l’opinione pubblica. Ma dentro il nuovo (dis)ordine globale la collocazione geostrategica dell’Italia è il vero stress-test per qualunque classe dirigente all’altezza delle sfide della modernità. E qui la destra è persino più divisa e confusa che sul resto. Di fronte alle nuove rivelazioni raccontate sul nostro giornale da Jacopo Iacoboni sul Russia-Gate del Carroccio, sui legami opachi tra il plenipotenziario dell’Ambasciata Kostyukov e il piccolo Kissinger di Frattaminore Capuano e sulle ipotetiche sollecitazioni di Mosca per il ritiro dei ministri leghisti dal governo, Meloni non ha avuto dubbi. Invece di difendere esplicitamente l’alleato dai sospetti e dalle accuse, l’ha messo implicitamente in mora di fronte al mondo: «Ribadiamo che saremo garanti, senza ambiguità, della collocazione italiana e dell’assoluto sostegno all’eroica battaglia del popolo ucraino, posso dire che un’Italia guidata da FdI e dal centrodestra sarà affidabile sui tavoli internazionali». Mossa spregiudicata ma abile, ancora una volta, della Sorella d’Italia. Utile a guadagnarsi un altro «quarto di nobiltà» diplomatica, a rafforzare la linea iper-atlantista tenuta fin dall’inizio sulla guerra e a mantenere la preziosa apertura di credito dall’Amministrazione americana, aperta anche grazie ai buoni uffici del ministro in pectore Crosetto e adesso persino rafforzata con l’intervista in buon inglese rilasciata venerdì scorso alla rete trumpiana Fox.

Sulla sponda opposta, non dell’Oceano Atlantico ma del Mar Nero, Salvini si ritrova ancora più solo. È chiaramente incapace di rompere il filo rosso che lo lega a Mosca. Resta fermo alle parole incredibili che pronunciò nel 2017: «Certo, c’è un accordo programmatico di collaborazione tra Lega e Russia Unita, che è il partito del presidente Putin, “aggratis”, senza chiedere o avere in cambio nulla, io ritengo che Putin sia uno dei migliori uomini di governo al mondo, e se avessimo un Putin anche in Italia staremmo meglio: lo dico perché lo penso, non perché me lo suggeriscono i fantasmi o Facebook». L’uomo del Papeete da lì non si è più mosso. «L’accordo programmatico di collaborazione» non è mai stato rescisso. Il macellaio di San Pietroburgo, nonostante i massacri di Bucha e di Kharkiv, nonostante il ricatto del grano e del gas, resta un «modello» da condividere, da seguire, comunque da non sanzionare. Con tutta evidenza, come ha scritto Lucia Annunziata, pesano questi anni vissuti pericolosamente. Parafrasando il poeta Guccini: tra Via Bellerio e l’Est.

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