Jovanotti: il mio grazie a Mattarella, ma noi maschi che disastro

Com’è nata l’amicizia con Morandi?

«Ci siamo incontrati in alcune trasmissioni televisive, tantissimo tempo fa. E lui è sempre venuto ai miei concerti. A ogni tour, in una tappa c’era Gianni. Non è scontato. Al Jova Beach Party, a Marina di Cerveteri, è salito a cantare sul palco ed è stato bellissimo. Così quando ha avuto l’incidente gli ho mandato un messaggio. L’ho sentito giù, era come “demorandizzato”. Impaurito da questa cosa che gli era successa. Così l’ho richiamato dicendogli: “Ho un pezzo per te, se lo canti tu si fa notare».

Lì è scattata l’amicizia, con L’allegria?

«All’inizio non era convinto. E’ un pezzo tirato, quasi punk, molto parlato. Gli ho detto: “Proviamoci”. E il giorno in cui ci siamo ritrovati in studio a Milano si è sbloccato qualcosa. In lui, ma anche in me. Abbiamo cantato e riso come dei pazzi. Lui non riusciva, io gli insegnavo, poi imparavo io. Uno di quei giorni in cui dici: che bella la vita».

Gliel’hai regalato perché guarisse dalla paura?

«Gliel’ho regalato perché funzionava. La musica è sempre la risposta. Per lui come per me, è lavoro. E’ quello che ci guarisce perché ci dà dignità, ci fa sentire parte del mondo, importanti, accettati. Invece di stare a casa a fare la fisioterapia, si è rimesso a lavorare».

Sia L’Allegria che Aprite tutte le porte, ma anche Il Boom, la Primavera, sono pezzi che sanno di ripartenza.

«Per me è come un dopo guerra. Come la foto di Times Square con i due che si baciano. E’ la musica di cui sento il bisogno in questo momento. Credo di essere il cantante italiano che ha fatto più pezzi da ballare e così è stato per Sanremo. Gianni mi ha detto che voleva andare in gara, non da superospite. Non a farsi celebrare. I premi alla carriera vanno bene dopo gli 80 anni, io li darei tipo estrema unzione perché prima può sempre succedere qualcosa. Michelangelo a 87 anni scolpiva La Pietà Rondanini, si può dire che sia morto con lo scalpello in mano.

E insomma Morandi voleva gareggiare con un pezzo tuo.

«Mi ha detto: la porta che si è aperta con l’allegria non vorrei richiuderla. Non vorrei andare a Sanremo con un pezzo emotivo, strappalacrime. Con uno di quei brani un po’ ricattatori che ti costringono al brivido, all’emozione. Non voleva un pezzo da reduce, ma da uno che va lì a portare il sole. Una canzone che ascoltano la mattina al bar mentre fanno il caffè. Ci abbiamo lavorato insieme, io togliendo consonanti, lui aggiungendo vocali, ed è nato Apri tutte le porte. Un pezzo che doveva suonare senza tempo, che doveva coinvolgere tutta l’orchestra».

Sanremo quest’anno ha premiato un ragazzo di 18 anni e ha consacrato musica nuova. E’ lo spirito del tempo, come dici tu, ma è sembrato contraddire quanto era avvenuto la settimana prima in Parlamento: la politica che fa mille giri per poi riaffidarsi a due grandi vecchi come Mario Draghi e Sergio Mattarella.

«Il fatto è che nella musica i centri di potere sono caduti. Una volta tutto era in mano alle grandi case discografiche, ora questa cosa non vale più. Puoi arrivare a 19 anni da una provincia italiana e sfondare con mezzi di produzione accessibili a tutti. Lo stesso vale per la distribuzione, metti il brano su internet e se funziona hai vinto. La disintermediazione della musica ha fatto sì che il talento, le idee si facciano strada senza bisogno di passare da un centro di potere. E’ così anche su larga scala. Una volta l’America si sentiva al centro del mondo e aveva inventato la categoria della World music, una parola inutile che definiva tutto quello che non era anglofono. Adesso non esiste più perché nella classifica di Billboard ci sono gruppi colombiani, musica della Nigeria. Un ragazzino di Lagos può accendere il telefonino e fare una hit mondiale. O può succedere una cosa bellissima come quella dei Maneskin».

Ti piacciono?

«Ottengono effetti positivi a tutto campo: riescono a far dire ai nostalgici del rock: è tornato il rock. Mentre i ragazzini che non conoscono i Red Hot o i Led Zeppelin scoprono qualcosa di nuovo. Hanno fatto qualcosa che era molto difficile immaginare, tranne per qualcuno: loro. Guardandoli nelle prime performance vedi che ci credono, che gli piace, che sono devoti a quello che fanno. Non sono lì per farsi vedere con l’aereo privato o le scarpe fiche, sono lì perché amano la musica. E la verità è più forte di tutto. Se sei autentico, sfondi».

A proposito di disintermediazione, in politica non ha tanto aiutato il rinnovamento. Anzi.

«Non è il tempo giusto, questo, per cercare qualcosa di nuovo. Stiamo vivendo un momento difficile in cui è stato normale riaffidarsi a Mattarella. C’era bisogno di affidabilità e questa scelta mi è sembrata anche saggia, dopo la paura, il senso di pericolo che abbiamo attraversato. Adesso ci sono i vaccini e quasi non ci pensiamo, ma c’è stato un momento in cui sapevi che se ti ammalavi morivi. Ho trovato Mattarella perfetto in alcuni passaggi critici. Da solo davanti all’altare della patria ha incarnato la sacralità del Paese: penso che invece di lamentarci dovremmo essergli grati. E che arriverà il tempo in cui la politica saprà rinnovarsi».

Dopo il lockdown, la dad, la chiusura, i giovanissimi sono tornati nelle piazze. Qualche settimana fa trovando manganelli, invece che ascolto. Teresa ha 23 anni, conosci questa generazione da vicino. Cosa pensi di quest’onda?

«Penso che quello che hanno vissuto sia stato più duro di quel che noi possiamo percepire e che le conseguenze potrebbero avere una lunga coda. Ma la presenza dei ragazzi in piazza dimostra la voglia di recuperare fiducia nel proprio corpo come strumento di condivisione. Il vero messaggio è essere lì. Ognuno faccia il suo lavoro, cercando di capire come recuperare il tempo perduto. Ma io sono fissato con questa cosa: siamo tutto insieme, corpo spirito anima, inscindibili. Protestare significa essere vivi».

Leggi poesie su Instagram, ne hai portata una a Sanremo. Ha a che fare con il lavoro di scrittura per la tua musica?

«La poesia è sempre stata una presenza, addirittura a scuola, ma ne ho assunto dosi massicce in questi ultimi due anni. Rafforza le difese emotive. Poi a Sanremo ho sbagliato, non ho spiegato bene perché ho definito Mariangela Gualtieri “un poeta”: dopo aver letto una sua raccolta le avevo scritto, “Cara poeta”, e lei aveva detto che amava essere definita così».

Cercavi di sottolineare il significato universale della parola, ma chi cerca sempre l’errore ha pensato volessi svilire il suo essere donna non dicendo poetessa.

«Su Internet ci sarà sempre qualcuno pronto a indignarsi. Non mi sorprende e anzi mi interessa: sono sintomi, segnali. Lo scontro sulle parole è dato dal fatto che sono tornate al centro. Pensavamo non avremmo scritto più nulla e invece continuiamo a scrivere. E mi interessa molto anche il tema della lingua che cambia. Perché è qualcosa che arriva dal basso, cambia anche se non vuoi, per strada dove la gente la usa. Gli accademici possono intervenire solo dopo, a registrare quanto già successo, non possono guidarla. A volte sulle parole litigo con Teresa: lei mi corregge, io le do retta. Solo una cosa le dico sempre rispetto ai ruoli e ai generi, che loro – a vent’anni – vivono molto diversamente da noi: “Mi auguro solo che per affermarti tu non debba assumere degli atteggiamenti maschili perché sono quelli dominanti”. L’atteggiamento maschile è pieno di falle, di buchi. Ha imposto nel linguaggio parole belliche riferite a tutto. Anche alla malattia, che non è una lotta, una guerra, perché non c’è chi vince e chi perde. E’ una cosa che capita. Bisogna cambiare questo linguaggio. Se lo facciamo, cambia la realtà».

LA STAMPA

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