La notte del Quirinale e la «ragion di Stato» che chiude la vicenda Belloni

di Francesco Verderami

Gabrielli: bisogna limitare l’elettorato passivo per certe cariche. In quei giorni, a detta di Matteo Salvini, il nome «mi venne proposto da Enrico Letta e Giuseppe Conte», che a sua volta inserì tra i promotori della candidatura «anche Roberto Speranza».

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«C’è una ragion di Stato che impone di chiudere subito la vicenda». Parlò di «ragion di Stato» il ministro della Difesa la notte in cui prese quota la candidatura di Elisabetta Belloni al Colle. Era l’ultima notte di quei «giorni travagliati».

A colloquio con il leader del Pd Enrico Letta, Lorenzo Guerini urlò come mai gli era capitato prima, perché «non si doveva arrivare dove si è arrivati», perché «non si doveva inserire il nome del capo del Dis nella rosa per il Quirinale», perché «va tenuto conto della delicatezza del suo ruolo», perché «non si possono tenere in fibrillazione gli apparati della sicurezza». E per quanto sorpreso dalla «coda bislacca» della trattativa sul capo dello Stato, il ministro dem pose soprattutto l’accento sulla «ragion di Stato».

Ed è proprio seguendo la logica della «ragion di Stato» che ieri il Copasir ha dato prova di un ritrovato senso della istituzioni, se è vero che — durante l’audizione della responsabile dei Servizi segreti — i membri del Comitato per la sicurezza della Repubblica si sono concentrati sulla crisi ucraina e non hanno posto domande sulla questione quirinalizia che l’ha coinvolta. Lo avevano fatto anche il giorno prima con il ministro degli Esteri, che pure era stato parte dell’affaire opponendosi alle modalità con cui la Belloni era stata infilata nel tritacarne dei quirinabili.

È stato un segno di resipiscenza (quasi di riscatto) del Parlamento, dopo la sbornia di una settimana surreale che — per effetto di mediazioni senza soluzioni — avrebbe infine portato alla rielezione di Sergio Mattarella. In quei giorni, a detta di Matteo Salvini, il nome della Belloni «mi venne proposto da Enrico Letta e Giuseppe Conte», che a sua volta inserì tra i promotori della candidatura «anche Roberto Speranza». Nel Palazzo non sono ancora certi su chi sia stata la mente del progetto, diciamo, ma è agli atti la reazione immediata di quanti lo hanno combattuto: dalla maggioranza del Pd a Forza Italia, da un pezzo di M5S ai centristi di ogni latitudine, dalla senatrice di sinistra Loredana De Petris a Matteo Renzi che disse «l’Italia non è l’Egitto».

E tutti insieme, per «ragion di Stato», evitarono di dar corso a una polemica che — come rileva Guerini — sarebbe stata «dannosa verso l’immagine di strutture così importanti e delicate»: «L’improvvisazione di quei giorni ha già fatto abbastanza danni. La politica deve avere l’intelligenza di non trascinare nell’agone persone e istituzioni che vanno tutelate nell’interesse del Paese». Una risposta indiretta a chi ha continuato a sostenere che sia stata «un’occasione persa non portare una donna al Colle», o a chi ha provato a giustificarsi spiegando come non ci fossero «norme di legge» che ne impedissero l’elezione.

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