Jovanotti: il mio grazie a Mattarella, ma noi maschi che disastro

Annalisa Cuzzocrea

«La musica c’è sempre stata, anche in questi due anni. E’ ascoltarla insieme che fa la differenza». Jovanotti sa che i suoi dischi sono quella cosa lì: le canzoni che balli in una danza collettiva, come accadrà dal 2 luglio in poi quando ripartirà il Jova Beach party e le spiagge d’Italia faranno festa; quelle che ascolti con qualcuno, magari solo in due, ma dividendo le cuffie come si faceva una volta. E’ in questo che Sanremo ha interpretato “lo spirito del tempo”: ha riportato in vita «un rito collettivo, ha fatto sì che per una settimana non parlassimo più di quel che ha dominato le nostre vite in questi anni, che saranno anche solo due, ma sembrano trecento». Lorenzo appare su Zoom dalla sua casa di Cortona. Sul volto l’energia di chi si è chiuso in studio a provare i pezzi nuovi del disco del Sole (alle canzoni dell’Ep Primavera se ne aggiungeranno tra poco almeno altre cinque), dietro di sé i mille colori di una carta da parati modello giungla. Nella stanza ci sono i cappelli, le chitarre, i tappeti preferiti, come quello che gli ha regalato a Natale la moglie Francesca. I libri in cui si è immerso per continuare a viaggiare da fermo: «Sono stato ovunque: in Iran, Cina, tre volte in Antartide, e ho scoperto il Polo Nord!».

«Sanremo è stata una botta», racconta subito. «Me ne accorgo da come mi sveglio al mattino». Un’emozione come per tutto quello che si può vincere o fallire. Perché «gli artisti sono acrobati, vivi sul filo, sai che puoi cadere da un momento all’altro. Quando inizi non ci pensi: c’è un elemento di ingenuità che bisogna sempre mantenere. Se fai un disco che sai già com’è, rischi che suoni trombone: è il peggio che ti possa succedere». Mentre il pop «funziona quando è ingenuo, quando c’è dentro una scoperta. I cantanti imparano sempre qualcosa. Non insegnano niente». 

Cosa c’era di diverso in questo Sanremo che milioni di persone sono state a guardare, commentare, votare?

«Ho sentito subito, fin dalla prima serata, che vibrava bene. Un Paese che non ha musica dal vivo da più di due anni è un Paese cui è mancato qualcosa di profondo, al di là della giusta questione del settore in crisi. Non voglio entrare nella giusta retorica del settore in crisi, perché questo va al di là dell’industria. E’ un bisogno che è rimasto seppellito. E Sanremo è stato perfetto: sono così rari i momenti in cui tante persone decidono di guardare insieme una diretta. Oltre al mondiale di calcio non mi viene in mente nulla. Nella frammentazione delle nostre vite, oggi che passiamo serate a cercare di decidere cosa guardare on demand per poi non guardare niente, è stato come avere un appuntamento. Come ritrovarsi».

Sul podio, insieme a Gianni Morandi con la canzone che hai scritto per lui, sono saliti Mahmood e Blanco ed Elisa, arrivati al primo e al secondo posto.

«Ed è stato perfetto così. Il podio più bello di sempre. Perché io Sanremo l’ho sempre guardato».

Anche quando i vincitori si dimenticavano in un niente?

«Anche negli anni di crisi, Sanremo racconta qualcosa. Può sempre venir fuori una canzone storica, è questo che lo rende magico. Sei distratto e ti arriva un Vasco Rossi, una Pausini, un Ramazzotti, un Mahmood. Lo guardi perché sai che stai assistendo a un mistero. Quel podio, a volerlo fare apposta, non l’avresti creato così perfetto. Tre generazioni, tre mondi musicali diversi, ma col respiro giusto: Morandi vecchia scuola, ma non antico; Mahmood e Blanco con un pezzo che parla anche alla generazione di Gianni; Elisa che è un’artista fantastica. Anche la successione, perfetta. Alchemica».

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