Ritorna il partito del debito di Stato

Costoro ce l’hanno col «liberismo» (parola inventata in Italia). Puntano il dito contro i «fallimenti del mercato» che, certamente, di tanto in tanto ci sono. Ma glissano sistematicamente sui numerosissimi e gravissimi fallimenti dello Stato. Autostrade torna allo Stato. Ci risentiamo fra qualche anno per valutare quanto sia risultata «efficiente» la sua gestione. Ancora, qualche esempio a caso: l’acqua, perbacco, deve essere pubblica (come ribadì un referendum di qualche anno fa). Se poi i costi sono molto più alti di ciò che permetterebbe una gestione privata, se l’inefficienza è massima e se tutto ciò ricade sulle spalle di contribuenti e consumatori, che ci importa? Ciò che conta è tenere alla larga l’odiato mercato e i connessi profitti. E che diciamo di Alitalia? O dell’Ilva?

Naturalmente, non essendo affatto turbati dalle conseguenze economiche di una pessima reputazione, i neo-statalisti non ritengono che il debito pubblico e la sua sostenibilità siano un problema. Già nell’ultima fase della Prima Repubblica essi incoraggiavano l’accumulazione del debito. A danno delle generazioni successive che, non esistendo ancora, non potevano opporsi.

La forza dei neo-statalisti, e la debolezza dei «liberisti» (le virgolette sono d’obbligo) dipendono da un semplice fatto: i costi delle politiche apprezzate dai primi sono altissimi ma quasi invisibili nell’immediato. Invece, i costi delle politiche sostenute dai «liberisti» (virgolette) sono bassi ma anche visibilissimi, immediatamente visibili. Se si chiude una fabbrica improduttiva, ad esempio, ci sono costi immediati e visibili: i disagi e le sofferenze di lavoratori licenziati che devono essere indirizzati altrove. L’immediata visibilità di quei disagi fa passare in secondo piano il fatto che sono disponibili i mezzi per alleviarli. Soprattutto, fa dimenticare che, chiudendo quella fabbrica, si liberano risorse che genereranno (in breve tempo ma non immediatamente) nuova ricchezza e nuova occupazione. Se invece la fabbrica improduttiva viene salvata, i posti di lavoro si conservano ma i costi del salvataggio ricadono sui contribuenti, c’è solo ricchezza dissipata, non creata. Salvataggio: pochi vantaggi ma immediati. I costi, assai pesanti, sono al momento invisibili. Chiusura: pochi costi ma immediati. I vantaggi, assai grandi (per tutti, lavoratori compresi) sono posposti nel tempo. È questo meccanismo che rende i neo-statalisti politicamente più forti dei loro avversari.

La ristatalizzazione di ampie parti dell’economia potrebbe essere un «delitto perfetto». Ma forse non lo sarà. Perché, per la sfortuna dei neo-statalisti, si sta determinando una pericolosa sovrapposizione fra la divisione mercato/Stato e la divisione Nord/Sud, una sovrapposizione che, alla lunga, potrebbe fare correre qualche rischio alla stessa unità nazionale. È stato istruttivo leggere che il responsabile economico del Pd, Emanuele Felice (lui, per lo meno, Keynes lo ha letto), considera «di destra» due esponenti del suo stesso partito, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La loro colpa è di essere rappresentanti di una parte del Paese di cui non possono non interpretare umori e preoccupazioni: soprattutto, la paura che lo Stato continui a dissipare risorse in assistenzialismo anziché impegnarsi per ridare slancio all’economia di mercato.

È possibile che sia proprio questa la zeppa che finirà per bloccare l’ingranaggio, la barriera contro cui andrà a sbattere il movimento di restaurazione (di ristatalizzazione dell’economia) che oggi procede al galoppo. Forse, prima o poi, i gravi squilibri attuali verranno riassorbiti, ci sarà un riequilibrio (anche territoriale). Forse quelli che più contano, non solo nei palazzi romani, verranno assaliti dalla realtà e faranno gli aggiustamenti politici del caso. O così si spera.

CORRIERE.IT

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