Turchia, l’identità batte la ragione

Nathalie Tocci

Sulle elezioni in Turchia non aveva capito niente nessuno, sottoscritta inclusa. Non avevano capito niente gli europei che consideravano l’esito delle urne scontato, con una vittoria del presidente Recep Tayyıp Erdoğan alle presidenziali e del suo Partito di Giustizia e Sviluppo (Akp) alle legislative. La Turchia viene spesso assimilata a Erdoğan, il cui crescente autoritarismo è noto ben al di là dei confini della repubblica. Quindi se Erdoğan è un autocrate, o addirittura un dittatore come viene talvolta definito in Italia, allora la Turchia è un’autocrazia, se non una dittatura. Chi la pensava così sarà stato sorpreso nel vedere un’affluenza di quasi l’89% in un Paese che sfiora i 90 milioni di abitanti: sono numeri da far invidia nera alla nostra democrazia, stanca e disillusa, e che nella tornata delle amministrative che si è chiusa ieri ha visto andare alle urne meno di sei elettori su dieci. Saranno stati ammirati dalla mobilitazione degli osservatori ai seggi, per assicurare che il processo elettorale filasse liscio e senza brogli. Saranno stati stupiti dal risultato, con Erdoğan che si è arrestato al 49,5% ed il suo sfidante principale Kemal Kılıçdaroğlu al 44,8%, aprendo la via al ballottaggio – il primo da quando il Paese ha adottato un sistema presidenziale – il 28 maggio. Difficile immaginare un secondo turno nella Russia di Vladimir Putin, nell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi oppure nella Cina di Xi Jingping… No, la Turchia non è una dittatura. Lo stato di diritto, i diritti delle minoranze, le libertà di stampa e di associazione, e la separazione dei poteri – pilastri fondanti di una democrazia liberale – sono gravemente erosi in Turchia. Nel centenario della repubblica fondata da Mustafa Kemal, detto Atatürk, insomma, la Turchia non può essere definita una liberaldemocrazia. Eppure, proprio alla luce dello svuotamento del sistema democratico, soprattutto nell’ultimo decennio, è incredibile che la società turca manifesti un dinamismo e una resilienza democratica come quelle viste l’altro giorno.

Ma non avevano capito nulla (ed eccomi inclusa nella categoria) coloro che pensavano (e speravano, ammetto) in un esito diverso. Avevo immaginato che si sarebbe andati al ballottaggio, ma credevo sarebbe accaduto con rapporti di forza invertiti tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Non è la prima volta che i sondaggi sottostimano la performance di Erdoğan, ma questa volta sembrava diverso. L’opposizione è, per la prima volta, unita, con una coalizione di sei partiti di centrosinistra, liberali e conservatori, con l’appoggio esterno del partito filo-curdo. La rabbia e la disillusione nei confronti di Erdoğan, inoltre, non sono mai state così alte, alla luce dell’inflazione divampante (oggi poco sotto il 50%), della stagnazione economica e del terremoto che ha ucciso 50 mila persone, molte delle quali sotto le macerie di palazzi malcostruiti durante l’era Erdoğan e soccorsi troppo tardi dalle autorità sotto il suo controllo. Insomma, molti pensavano che tutto questo avrebbe pesato di più, superando lo spazio mediatico monopolizzato da Erdoğan o le sue misure populiste, dall’Internet gratis agli studenti agli aumenti degli stipendi dei funzionari pubblici. Sicuramente in pochi immaginavano la popolarità delle forze nazionaliste, dal partito Mhp, coalizzato con l’Akp di Erdoğan, al terzo candidato alle presidenziali Sinan Oğan, che ha ottenuto oltre il 5% dei voti e che ora potrebbe porsi in vista del ballottaggio come ago della bilancia. Il che rappresenta soprattutto un rompicapo per Kılıçdaroğlu e l’opposizione, che dovranno assicurarsi gli elettori di Oğan senza, al tempo stesso, alienarsi le preferenze dei curdi. La Turchia è una società democratica ma anche terribilmente polarizzata, in cui le guerre culturali e identitarie pesano più della razionalità materiale.

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