La favola del fascino immaginario del fascismo

Paolo Guzzanti

Germogliano inaspettati filoni di nuovo dibattito sulla destra non per sapere che cosa pensi di fare Giorgia Meloni se conquisterà il campanello di Presidente del consiglio, ma per la solita storia del fascismo di cui quasi nessuno dei viventi ricorda granché. Io, che avrei anni sufficienti non ricordo nulla di memorabile del fascismo, ma molto degli italiani che erano stati giovani quando lo avevano attraversato. Tutti evitavano di parlare della guerra, ma tutti rimpiangevano i servizi sociali, il welfare che aveva procurato molti fan all’estero del sistema italiano. E poi il rimpianto dei contadini per le colonie estive per i figli, i treni popolari, una molto allusa ed ovvia libertà sessuale.

Fino ai miei trent’anni da giornalista socialista ho scazzottato come era d’uso con fascisti e fascistelli intorno e dentro l’università. Un paio di volte ci scappò il morto. La storia di cui parliamo è nata da un articolo di Corrado Augias su Repubblica e di cui ha ieri scritto Alessandro Gnocchi a commento di un intellettuale pacato e intelligente secondo cui essere fascisti a quell’epoca era qualcosa di simile a uno stato d’animo. Uno diceva secondo questa interpretazione come ti senti? E l’altro: un po’ fascista. Sarà vero? Certo che no, però sono tempi in cui ci si contenta molto. Quando un paio di anni fa incontrai Eugenio Scalfari nella piccola libreria antiquaria di via di Piè di Marmo, mi chiese cosa stessi cercando. Risposi che stavo cercando alcuni libri sul 1943 per un mio studio storico. Gli si illuminarono gli occhi e battendo su col bastone sulle piastrelle della libreria gridò: «Il 1943! Un anno indimenticabile». E fu davvero un anno indimenticabile perché il 19 luglio gli americani bombardarono Roma, il re fece un complotto con i gerarchi dissidenti convocando il Gran Consiglio del fascismo che era un organo costituzionale inserito nello statuto albertino, per la sera del 24 luglio.

A tarda notte dopo ampio e approfondito dibattito, fu tenuta una regolare votazione parlamentare in cui Benito Mussolini – capo di un governo costituzionale che era cominciato con un incarico nel 1922 per mettere in piedi una coalizione e che soltanto dal 1926 con la crisi dell’omicidio Matteotti si trasformò in una dittatura a causa dell’abbandono per due anni di deputati e senatori dalle loro aule – fu messo in minoranza, spogliato del ruolo di duce. Fu preso a male parole dalla moglie Rachele quando tornò a casa e lei disse «va là ben sei proprio un gran testardo, il tuo amico Hitler con quattro dei suoi gli avrebbe sparato a tutti», cercò di rabbonirlo mentre si toglieva le scarpe dicendo «domani vado dal re e calmo tutte le acque». L’indomani quando andò dal re a villa Torlonia il piccolo monarca non gli fece aprir bocca e disse: «Ho già nominato il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo». Mussolini si sedette in stato di choc e il re aggiunse: «Tutte le misure sono prese e un’ambulanza vi porterà al sicuro».

Il resto lo sappiamo: Mussolini fu fucilato due anni. Dopo qualche mese più tardi la bara fu trafugata sicché nacque la leggenda di un fuoco fatuo tricolore e che generò il simbolo della fiamma tricolore del Msi. Corrado Augias e alcuni arditi intellettuali dibattono ora su un nuovo tema troppo a lungo trascurato: se il fascismo, fosse stato, al di là della politica anche uno stato d’animo sintetizzato dalla battuta «Oggi mi sento un po’ fascista». Tra quelle di casa mia, di emozioni ricordo quella di mio padre, ingegnere delle Ferrovie che quando Hitler venne a Roma con la capitale in ghingheri e piena di svastiche, ricevette dal gerarca l’ordine di salire sul treno di Hitler, copiare tutto per rifarne uno identico al Duce. Mio padre lo visitò, misurò e poi disse semplicemente: «Non si può fare una copia di questo treno in Italia». Un pugno lo stese a terra da dove mio padre spiegò i motivi per cui il treno tedesco non poteva essere riprodotto.

Eugenio Scalfari, quando ci incontrammo due anni fa in libreria proseguì: «Nel 1943 io non ero fascista». Si fermò guardandomi con una lunga pausa: «Io nel 1943 ero fascistissimo!». Quando dette alle stampe la sua autobiografia dettata a due colleghi, iniziò con una descrizione dei sentimenti di disarmante entusiasmo fascista, pur avendo l’età in cui Piero Gobetti fu ammazzato dai fascisti.

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