Il mito rovesciato di Mosca

di Ezio Mauro

Il mito rovesciato della Russia, come i palazzi di San Pietroburgo che si specchiano al contrario nelle acque della Neva, torna ad agire sull’Europa ipnotizzandola, scompaginandola e – ciò che più conta – dividendola. È un ribaltamento della storia, perché dopo aver insediato al Cremlino la rivoluzione bolscevica, spargendo i semi leggendari del comunismo realizzato in tutto il mondo, oggi Mosca è diventata la capitale dell’autoritarismo conservatore, del nazionalismo reazionario e soprattutto del dispotismo autocratico: l’unico elemento fisso sulla scena russa del potere, nei tre secoli di regno dello Zar, nei sette decenni sovietici governati dal Politbjuro del Pcus e nei 22 anni di dominio dell’ultimo principe, Vladimir Putin.

L’irradiazione propagandistica continuativa che parte dalla piazza Rossa, e che secondo il premio Nobel per la pace Dmitrij Muratov è potente come la radiazija della centrale di Chernobyl, usa la piattaforma universale della guerra come una moderna ideologia, la prima che torna ad affacciarsi nel secolo da cui ogni eredità ideologica pareva bandita. Sembrava impossibile che dopo il collasso del gigante sovietico il Cremlino riuscisse in così breve tempo a ricostruire una tecnica del potere capace di riconquistare il rango perduto.

E soprattutto a riarmare una struttura teorica, una vera e propria dottrina, in grado di concepire e legittimare il restauro di un’autorità iper-nazionale, anche sotto forma di arbitrio e sopruso. Infine, che tornasse in campo, pretendendo di scrivere la sua quota di storia, e non semplicemente di leggerla.

Invece, sta accadendo. Rinasce la frontiera orientale, la linea di separazione, il punto di distinzione, il meridiano zero, e ritorna a segnare la nostra vita, contendendoci lo spazio e il tempo in una disputa infinita che si rinnova. Poiché per tutta l’epoca della Guerra fredda sembrava costruito con la pietra stessa del Muro di Berlino, il concetto geopolitico di Est pareva incapace di sopravvivere alla caduta di quella barriera armata e alla distruzione di quel punto simbolico da cui cominciava la divisione del mondo.

Devitalizzato politicamente, svuotato di una soggettività sovrana, neutralizzato nella sua dimensione imperiale, ciò che restava della raffigurazione storica dell’Est veniva ridotto alla funzione tecnica di semplice punto cardinale, orizzonte dove sorge la luce del sole, per illuminare avanzando l’Occidente egemone: il cui sistema di credenze – la democrazia – aveva infine vinto, o almeno così credevamo.

Quell’interpretazione politica della storia e della geografia d’Europa orientale riemerge invece violentemente, insopprimibile, rivendicando nella sua ribellione un ruolo per l’Est e riportandolo al centro della scena. E l’incarnazione dell’altra parte del mondo ancora una volta è la Russia, il “nemico ereditario” dell’Europa di cui è parte, il principio antagonista che porta in sé la sfida perpetua di una maestà concorrente, il pretendente imperiale che riemerge.

Dunque non era solo la sovrastruttura bolscevica e leninista il fondamento dell’alterità di Mosca rispetto all’Ovest, ma anche l’autocoscienza della Russia affondata nei secoli, il suo carattere nazionale e popolare perpetuamente dilatato oltre i suoi confini, avvilito e renitente quando il nuovo disegno del mondo lo spingeva a rientrarvi.

Putin si appoggia in modo palese a questa rappresentazione missionaria che la Russia ha di sé, quasi una condanna eroica a un destino che era in sonno, sommerso nella neutralità grigia del post-sovietismo declinante, e che il Cremlino ha risvegliato. Ed esattamente qui avviene lo scambio di riconoscimento reciproco tra il potere e i sudditi, che è la base ambigua del consenso popolare “all’operazione speciale” in Ucraina.


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