Il bla bla bla che al mondo non basta più

Massimo Giannini

Sperduti, impauriti e impoveriti nel grande mondo post-pandemico, guardiamo con sollievo i Grandi della Terra riuniti a Roma per discutere dei mali del pianeta. Potremmo dirla così: la prima, vera notizia che emerge da questo G-20 è probabilmente il G-20 stesso. Il fatto cioè che dopo quasi due anni di lockdown globale questo format politico-diplomatico torni ad esistere. Il fatto che i Capi di Stato e di governo tornino a incontrarsi “in presenza”, e non più “in Dad”, per parlare delle tre pestilenze epocali che ci opprimono: il Covid, il clima, la crisi. Ci rassicurano le photo-opportunity di rito, arricchite stavolta dalla presenza di medici e infermieri, i veri Grandi di questa tragica guerra contro il virus. Ci confortano i panel e gli incontri bilaterali tra i leader, Biden che parla di nucleare iraniano con Macron e Merkel, Draghi che parla di diritti civili con Erdogan e Modi, la regina d’Olanda che parla di empowerment femminile con tutti. Ci rafforzano le dichiarazioni e le immagini del nostro presidente del Consiglio, che di questo vertice planetario è padrone e di casa e regista, per conto di un’Italia che nell’occasione ha recuperato prestigio e credibilità, ritrovando un peso nell’Unione europea e un ruolo nell’Alleanza Atlantica. Può darsi che abbia ragione Helen Thompson, che sul New York Times sostiene: «Nel dopo Angela l’Europa non ha più una guida», per la semplice ragione che «l’Unione non può essere guidata». Ma che Draghi stia riempiendo un vuoto è una verità oggettiva. Ed è un bene per il Paese. Questa cerimonia schopenaueriana del “mondo come volontà e rappresentazione” ci aiuta a mitigare l’inquietudine della fase: il timore che nell’era del Grande Caos non ci sia nessuna autorità suprema, nessun Leviatano capace di mantenere o ripristinare l’ordine. Almeno dal punto di vista simbolico e iconografico, c’è il tentativo di ridare all’umano una direzione di marcia, un destino comune, un disegno condiviso. Nell’emergenza pandemica sono riemersi i vizi antichi del potere, che inganna il popolo in nome del popolo. Il protezionismo, l’unilateralismo, il nazionalismo: scorciatoie demagogiche, che hanno solo acuito i problemi. Serve altro, di fronte all’entropia e al dolore del mondo. Come ha detto Mario Draghi, il multilateralismo è «l’unica soluzione possibile». Ha ragione. Ma al di là della facciata, questo G-20 riflette davvero la determinazione assoluta dei leader di recuperare un orizzonte multilaterale nelle relazioni internazionali? Purtroppo, se dalla forma si passa alla sostanza, i dubbi sono tanti. Resta la sensazione che sia ancora vera la dottrina di Hobbes: gli Stati-Nazione “nella postura dei gladiatori, con le armi pronte e gli occhi fissi uno sull’altro”. Resta l’impressione che l’uscita dalla crisi, piuttosto che al multilateralismo invocato dal nostro premier, porti a un multipolarismo asimmetrico dagli esiti incerti.

La “diserzione” di Xi Jinping e Putin dallo storico appuntamento nella Capitale è un pessimo viatico e insieme la conferma che il mondo scomposto si va ricomponendo per blocchi e sotto-blocchi contrapposti. Da una parte Usa e Ue, uniti per dimostrare che “l’America è tornata” e che “le democrazie funzionano”, ma poi divisi tra due zone di interesse, una nell’Atlantico e l’altra nel Pacifico (vedi l’Aukus con Australia e Regno Unito, che ha fatto infuriare la Francia). Dall’altra parte Cina e Russia, in comunione per ribadire che il liberalismo occidentale ha fallito, ma in competizione per attrarre nelle rispettive aree di influenza potenze regionali come Iran e Pakistan. Cosa possa nascere di buono da questo assetto è difficile dire. Se si prescinde dall’intesa pur decisiva sull’introduzione di una minimum tax globale del 15 per cento sulle multinazionali, cos’altro sta producendo il G-20 romano? Del dramma dell’Afghanistan non si parla nemmeno: Draghi ci ha provato per un mese, ma purtroppo non è riuscito a convincere i partner a un confronto che invece sarebbe stato necessario per ragioni politiche e doveroso per ragioni etiche, vista la fuga vigliacca degli eserciti Nato da Kabul.

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