Le sfide del G20: democrazie alla prova, i vantaggi dei regimi

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di   Angelo Panebianco

Troppi e aggrovigliati problemi per un summit solo? Nell’incontro del G20 che si conclude oggi a Roma, tra colloqui ufficiali e riservati, si è discusso di Covid, di clima, di energia, ma anche di Afghanistan, di Mediterraneo, di nucleare iraniano, di Africa.

Al di là delle dichiarazioni e di qualche accordo (global minimum tax) ciò che più conta è avere mostrato all’opinione pubblica mondiale che certi Paesi, le democrazie occidentali in particolare, sono ancora in grado di cooperare fra loro. Anche se le divisioni restano. Molto di più non si poteva pretendere. Basti pensare che il presidente Joe Biden è arrivato a Roma con un piano di investimenti su welfare e transizione ecologica su cui non dispone ancora dell’approvazione del Congresso. O si pensi a come, in tutti i temi, a cominciare da clima e energia, siano in gioco conflitti di interesse anche aspri. E su quanto pesi la competizione fra le grandi potenze.

Il summit è però anche un’occasione per riflettere sul rapporto fra le democrazie e le potenze autoritarie, grandi (Cina, Russia) o medie che siano. Al tempo della Guerra fredda le democrazie occidentali vivevano in un mondo «semplice»: noi di qua, loro di là. Allora gli occidentali, per contrapporsi all’Urss, potevano appoggiare (e lo fecero, eccome) governi autoritari in America Latina, in Asia o in Africa ma quell’appoggio, ai loro occhi, era giustificato, sia pure a malincuore, dalla Realpolitik, ossia dal fatto che occorreva costruire dighe per impedire al comunismo sovietico di dilagare. Oggi il mondo, per gli occidentali, è molto più complicato. Come dimostrano i rapporti difficili e ambigui che tanto gli Stati Uniti quanto gli europei intrattengono con le potenze autoritarie. Con le quali devono cooperare pur cercando di tenerle a bada. Liaisons dangereuses, legami pericolosi.

Le differenze, istituzionali, politiche e sociali, mostrano i punti di forza ma anche di debolezza delle democrazie rispetto alle potenze autocratiche. Le democrazie sono vincolate al rispetto dei diritti dei loro cittadini. Le autocrazie devono soprattutto guardarsi dalle periodiche rivolte popolari. I governi delle democrazie sono condizionati dagli umori e dalla volontà degli elettori. I regimi autocratici hanno i mezzi per manipolare le elezioni (quando e se ci sono). Le democrazie si innestano su società relativamente aperte, ove imprese e associazioni di ogni tipo agiscono, dentro e fuori i confini nazionali , subendo solo un blando controllo governativo. I regimi autocratici esercitano il controllo politico, almeno in linea di principio, su ogni aspetto della vita economica e sociale dei propri Paesi. Queste differenze si riflettono nei rapporti internazionali.

Le democrazie hanno due grandi punti di forza. Quando una democrazia è in pericolo, quando si trova in guerra con potenze autoritarie, e a rischio di invasione, essa mostra una capacità di mobilitare i cittadini per la difesa del Paese superiore a quella che sono in grado di esibire le suddette potenze autoritarie: nelle prove drammatiche i cittadini (della democrazia) sono pronti a sopportare spontaneamente maggiori sacrifici di quelli che sopportano, per pura coercizione, i sudditi, spesso demoralizzati, delle autocrazie. Il secondo punto di forza è che le società aperte (democratiche e occidentali) hanno mostrato una capacità di creare legami transnazionali — la cosiddetta globalizzazione — che le chiuse società autocratiche non avrebbero mai potuto generare (anche se possono, vedi Cina, sfruttarne i vantaggi). Anche il G20 è figlio dell’Occidente e della sua vocazione aperta e includente, rappresenta un’evoluzione dell’originario G7. Forse non è un caso se le due massime potenze autocratiche (Cina e Russia) abbiano partecipato all’incontro di Roma solo in videoconferenza.

Ma ci sono anche i punti di debolezza. Le democrazie, come diceva un osservatore dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville, sono meno attrezzate dei regimi autoritari per condurre con efficacia i loro affari esteri. Sono perennemente in bilico fra le esigenze imposte dalla competizione di potenza e i vincoli interni, la necessità di rispondere a elettorati volubili. Gli autocrati, privi di forti vincoli interni, possono pianificare le loro mosse di politica estera anche nel medio termine. I governi democratici si muovono in un orizzonte temporale ristretto, definito dai tempi delle scadenze elettorali (e dagli umori popolari rilevati dai sondaggi). Da qui le tante incertezze e ambiguità. Come mostrato dalla disastrosa ritirata americana da Kabul e dalla più generale incapacità, di americani e europei, di definire chiare linee di azione quando devono fronteggiare l’aggressività dei regimi autoritari. Si pensi alla difficoltà di stabilire come neutralizzare certe mosse del despota turco Erdogan, capo di un Paese membro della Nato ma anche ostile all’Occidente.

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