Draghi sfili le bandierine ai partiti

L’Italia ha subìto ma anche contribuito alla confusione. Prima le rassicurazioni solenni sulla validità del farmaco, culminate con la paternale televisiva del generale Figliuolo da Fabio Fazio. Poi lo stop improvviso alle vaccinazioni, chiaramente innescato da una Angela Merkel allarmata per il report del Paul Ehrlich Institute. Infine, dopo il tardivo via libera dall’Ema, la ripresa delle somministrazioni. Risultato: un’opinione pubblica ancora più impaurita e purtroppo sempre più diffidente sui vaccini. Lo certifica il sondaggio di Alessandra Ghisleri: ora è no-vax un italiano su tre. Di fronte a questo girotondo intorno alla vita e alla morte delle persone, la spiegazione di Draghi è umanamente comprensibile: “mettetevi nei miei panni”, chiede il premier, che poi nega e ironizza sul movente dei presunti “interessi tedeschi” cari ai complottisti-negazionisti di ogni ordine e grado. Ma politicamente il danno è ormai inevitabile. Se sarà anche irreparabile lo diranno i numeri della campagna vaccinale delle prossime settimane. Recuperare tre giorni di ritardo nella somministrazione è anche possibile, ripristinare la fiducia dei cittadini è molto più difficile. Che adesso l’élite si vaccini AstraZeneca – dallo stesso Draghi a suo figlio, dal commissario straordinario al capo della Protezione Civile – è senz’altro un bel segnale. Che a fare da testimonial siano grandi campioni dello sport – come Totti e Vezzali – è ancora più bello. Ma che basti questo a convincere un “popolo” già stremato e disinformato è tutto da dimostrare. Intanto accontentiamoci dell’altolà che il presidente del Consiglio lancia a Ursula Von Der Leyen: in caso di ulteriori esitazioni della Commissione Ue sui vaccini, l’Italia farà da sé. Un avvertimento forte e chiaro, dall’ex banchiere centrale che l’Europa l’ha salvata almeno due volte. Forse è proprio per questo che se lo può permettere, non danneggiando ma semmai accrescendo l’immagine dell’Italia. Al contrario del suo predecessore a Palazzo Chigi.

Anche sull’economia si chiude una settimana critica. Il decreto sostegni da 32 miliardi è il figlio sofferto di troppi padri e troppe madri. C’è molto di buono, in oggettiva continuità con quanto annunciato dal governo precedente. Più aiuti per i poveri, più soldi per le famiglie, più ristori per le imprese. Un aumento dei fondi per il reddito di emergenza e per quello di cittadinanza. Una proroga del blocco dei licenziamenti e della Cassa integrazione. Un’estensione più vasta dei beneficiari (senza più i famigerati codici Ateco), un’erogazione più veloce dei contributi (con gli accrediti diretti attraverso l’Agenzia delle Entrate). Ma c’è anche il meno buono, ed è l’ennesimo colpo di spugna che magari, senza la Lega e Forza Italia in maggioranza, il governo precedente non avrebbe fatto. Ma Salvini e Berlusconi ci sono, e quindi c’è anche quella che in questi mesi le destre hanno ribattezzato “pace fiscale” e che invece proprio Draghi chiama col suo nome: “Questo è un condono”. Apprezzo l’onestà intellettuale del premier, che non ha paura di dare un nome alle cose e riconosce in questa il “fallimento dello Stato”. Capisco che un contenzioso tributario da 955 miliardi, di cui il 61 per cento ormai inesigibile, è un macigno dal quale ci dobbiamo in qualche modo alleggerire. Mi rendo conto della positiva “riduzione del danno”, visto che la pretesa salviniana di abbonare tutto a tutti fino al 2018 è stata respinta. Ma anche in tempi di carestia da Covid, non posso non vedere che si tratta dell’ennesima beffa per gli onesti. Me la sarei aspettata da un governo gialloverde, non dal “governo dei migliori”.

E qui arriviamo al punto. Questo è davvero il “governo dei migliori”? Se guardiamo a Draghi, e alla cerchia ristretta dei tecnici, non ci sono dubbi: lo è. È bastato sentirlo, in conferenza stampa, per rendersene conto. Ma se guardiamo al resto, il giudizio cambia. Nonostante lo “sfarinamento del quadro politico”, come diceva una vecchia volpe della Prima Repubblica come Rino Formica, i partiti fanno i partiti. C’è chi cerca di risalire la corrente, come Letta che da neo-segretario del Pd mette il cappello sul Decreto Sostegni e batte un primo colpo contro la Lega. C’è chi annaspa tra i gorghi, come i Cinque Stelle ormai orfani di Rousseau e incerti della leadership contiana. E c’è chi cavalca tutte le onde, come Salvini che per marcare l’amico-nemico Giorgetti convoca surreali consigli dei ministri padani nei suoi uffici del Mise. Nell’insieme, la politica delegittimata e scavalcata dalla tecnica rivendica residui scampoli di territorio, presidia modesti ruoli di sottogoverno, combatte guerricciole di retroguardia. Per usare la formula del premier: continua a “piantare bandierine identitarie” (o forse sarebbe meglio definirle ideologiche).

La strategia draghiana è evidente: con quelle bandierine deve farci i conti perché, come ha spiegato nel discorso di investitura davanti alle Camere il 17 febbraio, “non c’è nessuna ragione per cui questo governo possa far bene senza il consenso dei partiti che lo sostengono”. Poi, di qui alla fine della legislatura, saranno i fatti e il buon senso a dimostrare quali bandierine meriteranno di sventolare ancora, e quali invece andranno ammainate per non creare altri guai all’Italia. Un approccio pragmatico, anche questo, che tuttavia non dovrebbe tradursi in un ricorso sistematico al compromesso. Per questo, mi permetto la licenza di un consiglio non richiesto. Come dimostra il Decreto Sostegni col condono incorporato, Draghi stia attento: se comincia a fare troppi slalom, tra quelle bandierine, può anche puntare al traguardo, ma ci arriva tardi e male.

LA STAMPA

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