Gentiloni: «Una forte ripresa è possibile. Ripensiamo il Patto di stabilità»

Sì, ma adesso?

«Stiamo dando una cornice di certezze che si può riassumere così: in questa fase è meno rischioso fare troppo, che troppo poco. Non vanno ritirate prematuramente le misure di sostegno, va allungata al 2022 la sospensione del Patto di stabilità, bisogna lavorare perché la politica monetaria e la politica economica vadano all’unisono. E guardi che costruire un consenso su questa impostazione non era scontato».

Ha già idee su come rivedere il Patto di stabilità?

«Riapriremo la discussione in autunno. Vedo due problemi, oltre a quelli di prima del Covid-19. E il primo è che esiste un’enorme domanda di investimenti pubblici e privati. Negli ultimi 5 anni nell’area euro gli investimenti pubblici netti sono stati pari quasi a zero. A questo si aggiunge il rischio di una mancanza di investimenti privati. Invece noi in Europa abbiamo bisogno di migliaia di miliardi di investimenti, a maggior ragione in vista della transizione verde e digitale. Parliamo più di strumenti di crescita, che non di stabilità».

E la seconda questione?

«Non si tratta di rivedere gli obiettivi stabiliti dai trattati. Ma con un debito pubblico in media al 103% del Pil nell’area euro, abbiamo bisogno di una discussione sulle modalità di rientro, i percorsi, i tempi e i perché. Se noi ci limitassimo ad applicare le regole come sono, con livelli di debito aumentati così tanto, allora dovremmo mantenere per 10 o 15 anni dei surplus di bilancio prima di pagare gli interessi sul debito che sarebbero difficilmente sostenibili. Dobbiamo ripensare a come gestire i percorsi di rientro. Ovviamente l’Italia o la Grecia hanno livelli di debito pubblico molto alti e devono esercitare particolare prudenza. Ma anche la Francia sarà probabilmente sopra il 120% del Pil per diversi anni. Credo che dovremo far fronte a queste realtà».

Lei ha rivisto John Kerry, inviato Usa sul clima. Con Joe Biden alla Casa Bianca, l’asse transatlantico sta tornando?

«Non è tutto bianco o nero, però è tornato. Secondo me è una parte della rivincita europea di questa fase e della sconfitta — certo, non definitiva — di sovranisti e euroscettici. L’Occidente è di nuovo una realtà che nessuno mette in dubbio. Non è che l’America sia tornata al secolo scorso e le differenze siano annullate, ma ora la Casa Bianca punta molto sul multilateralismo e dunque sull’alleanza con l’Unione europea. Se l’Europa politicamente oggi gode di buona salute non è solo per la buona risposta all’emergenza economica. È anche grazie a Biden».

Sui vaccini che lezioni trae dai ritardi dell’Europa?

«Alcuni dei vaccini più innovativi sono stati creati in Europa. Anche per le case americane una parte molto consistente della produzione si fa qui. Eppure siamo in ritardo. Non siamo attrezzati come Unione, senza logiche protezionistiche, a prenderci cura delle nostre catene del valore: quel percorso che va dall’acquisto dei componenti all’infialamento. Si è parlato molto del blocco di 250 mila dosi dall’Italia verso l’Australia, ma nel frattempo abbiamo autorizzato l’export di 35 milioni di dosi».

Non andava fatto?

«Andava fatto, non siamo protezionisti, ma è giusto avere trasparenza su dove vanno vaccini prodotti in Europa. Ci serve anche per far sì che i contratti che i fornitori hanno firmato con noi siano rispettati. Ora stiamo affrontando un lavoro duro, quotidiano, ma le stime oggi più certe mi fanno pensare che prima della pausa estiva saranno distribuite nell’Unione europea 400 milioni di dosi».

Nel Pd basta eleggere Enrico Letta segretario per rimettere tutto a posto, dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti?

«Zingaretti ha compiuto una scelta coraggiosa, coerente e non consueta. È uno stappo doloroso e credo che la comunità del Pd ne abbia capito il senso. Con Enrico Letta si può fare, anche perché lui garantisce una delle nostre grandi scelte identitarie, quella europeista, e può fare del Pd quel motore d’innovazione e, mi auguro, di ambientalismo che serve al Paese».

Lei segue i passi del governo di Mario Draghi attraverso l’interlocuzione sul Recovery Plan. Che idea si è fatto?

«Draghi è una delle figure più autorevoli e rassicuranti sul piano internazionale e questo per l’Italia è un bonus. Sul Recovery Plan il lavoro è ripreso e in questo momento è volto a rafforzare la qualità e la selezione degli investimenti, che non possono essere troppo dispersivi. Il lavoro si concentra anche sui temi indicati dalle nostre raccomandazioni: la pubblica l’amministrazione, la giustizia civile, la sostenibilità del sistema pensionistico e la concorrenza. Ma vedo anche altri due temi: la gestione del piano, su cui ci sono stati progressi affidando il coordinamento al ministero dell’Economia, mentre forse ora bisogna fare dei passi avanti per evitare strozzature, ritardi e assicurare il rispetto degli obiettivi e delle tappe che in parte il governo ha già indicato. Il prefinanziamento del 13% del pacchetto italiano può arrivare prima della pausa estiva, ma Next Gen EU non è un fondo come gli altri: se i governi non rispettano tempi e obiettivi da loro stessi indicati, le rate semestrali potrebbero non essere versate. Dunque i dettagli della governance e degli obiettivi sono molti importanti e sull’Italia sono ottimista, perché il lavoro che si sta facendo nei ministeri coinvolti è di qualità notevole. Purtroppo, abbiamo ormai solo quattro-sei settimane per chiudere».

CORRIERE.IT

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