Vaccini, gli errori dell’Europa

di Aldo Cazzullo

A poco più di un anno dall’arrivo del Covid, si profila un fallimento clamoroso dell’Europa sui vaccini. L’Unione dei Paesi che vantavano il miglior sistema sanitario pubblico al mondo si sta rivelando impotente nel proteggere e immunizzare i propri cittadini. Non soltanto i regimi — che come ci siamo detti mille volte hanno mezzi che le democrazie non hanno —, ma pure gli Stati Uniti e il Regno Unito vantano oggi numeri che Germania, Francia, Italia e Spagna si sognano; per tacere del miracolo israeliano, dove il peso internazionale di un leader sia pure contestato come Netanyahu ha incrociato la forza morale e organizzativa di una nazione per cui il concetto di guerra a un nemico comune non è un’idea astratta. L’Europa invece è ultima in tutte le classifiche di immunizzazione. E pure la diatriba sui vaccini — secondo Le Monde, il 24% degli italiani non intende vaccinarsi o non ha ancora deciso, percentuale che sale al 33 in Germania e addirittura al 51 in Francia, mentre crolla al 20 nel Regno Unito — si rivela priva di senso; perché i vaccini non ci sono, neppure per chi li vorrebbe.

Il fallimento nasce non da uno, ma da molti errori. L’Europa ha puntato quasi tutto su un vaccino, quello di AstraZeneca, che è arrivato molto dopo quello di Pfizer, e pur avendo alcuni vantaggi — costa meno, si trasporta più facilmente — ha un’efficacia inferiore. Quando la Germania se n’è accorta, ha tentato di risolvere il problema trattando con la Pfizer per conto proprio, e di fatto rimangiandosi la strategia con cui le due donne forti del continente — la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e la cancelliera Angela Merkel — avevano impostato la campagna vaccinale. Una strategia non sbagliata, anzi: muovendosi in modo coordinato, e facendo quindi massa critica, l’Europa poteva ottenere condizioni migliori, sia come prezzi sia come forniture. Ma questa strategia si basava su due presupposti: fare le scelte giuste; e restare uniti. Purtroppo entrambi i presupposti sono venuti meno.

Inoltre, l’Europa non si è mostrata abbastanza flessibile e reattiva di fronte all’emergenza. Finalmente ha capito di dover spendere di più e condividere quote di debito comune — anche se in una misura che si rivelerà forse insufficiente e tardiva —; ma non è riuscita a scuotersi dalla consueta complessità burocratica. E neppure a dissipare l’impressione che tempi insopportabilmente più lunghi di quelli non solo cinesi e russi ma pure americani, inglesi, israeliani fossero dovuti non a maggiori controlli, bensì a maggiore lentezza. Non al rigore, ma all’omaggio che la burocrazia paga a se stessa, autoalimentandosi.

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