L’avanzata dello Stato e la stagione incompiuta delle privatizzazioni

di Dario Di Vico

Ha preso a circolare in questi giorni un e-book di “racconti economici” scritto da Filippo Cavazzuti, il professore bolognese prima sottosegretario con Ciampi, poi commissario Consob e che in qualche modo incarna il tentativo della sinistra italiana di conciliare Stato e mercato. Il titolo è intrigante: «Il capitalismo finanziario italiano è un’araba fenice?» e ci riporta agli anni ‘90, alla stagione delle grandi privatizzazioni e all’idea di irrobustire il capitalismo italiano proprio a partire dalla ritirata dello Stato. Il disegno era complesso e sofisticato: passava per l’apertura alle Goldman Sachs e alle Morgan Stanley, prevedeva un ricco sistema di authority indipendenti, in definitiva mirava ad avvicinare l’Italia – il Paese dell’Iri – alla cultura anglosassone.

Il passo del gambero

Il mercato finanziario avrebbe dovuto poi favorire, a tutela dell’efficienza delle imprese, la circolazione della proprietà grazie anche a un nuovo rapporto di fiducia tra gli italiani e la Borsa. Da allora non è trascorso un secolo, come pure potrebbe sembrare, ma meno di 25 anni e ci troviamo di fronte a uno scenario di segno totalmente opposto. Le Autostrade tornano di proprietà dello Stato, il Monte dei Paschi che non era mai stato pubblico lo è diventato, il Mediocredito Centrale si è annesso la Popolare di Bari, l’Alitalia è ancora a carico dei contribuenti e per l’Ilva si prospetta una dolorosa ri-pubblicizzazione. Questo passo del gambero è sufficiente per dire che la nostra struttura economica si è rivelata riottosa verso il mercato e ha un atavico bisogno di Stato? Oppure sono stati i nostri capitalisti a non avere gamba e a obbligarci a rispolverare i ritratti di Alberto Beneduce?

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