I grillini del Conte bis: altro che vaffa, è giunta l’ora del post-populista a Cinque Stelle


A proposito di eterno, nella cronaca parlamentare spicca al contrario l’improvvisa vicinanza, quasi fisica, con uno come Pier Ferdinando Casini: «Mi rivolgo anche ai colleghi dei Cinque Stelle: chi l’avrebbe detto che avremmo condiviso questa esperienza? La prima volta che ci siamo visti ci guardavamo in cagnesco e adesso votiamo insieme», ha esultato post-democristianamente l’uomo che – peraltro proprio come i Cinque Stelle – è stato alleato prima con la Lega e poi con il Pd, che adesso è senatore nel gruppo delle Autonomie, e che perciò è in grado di rispondere ai leghisti che lo fischiano: «Siete gelosi». Abbastanza post, non c’è che dire: i Cinque Stelle potrebbero ispirarsi.

Ecco, comunque, gli ex populisti. I «diversamente populisti», ha detto Emma Bonino al Senato. Oppure, direttamente, elitari. «Nella dialettica élite-popolo, siamo tornati alla normalità. E i Cinque Stelle stanno con l’establishment», dice Fabrizio Rondolino, che seguiva Occhetto per l’Unità ai tempi della svolta, fu a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema, lavorò alla prima edizione del Grande fratello (quella con Rocco Casalino) e adesso, espertissimo di post-qualcosa, si compiace della mutazione: «I grillini fanno gli utili idioti, come erano i comunisti una volta, quando volevano fare la rivoluzione e in realtà servivano a stabilizzare il sistema, perché così la Dc governava».

Ecco: si dicevano «guerrieri», adesso governano con i post-comunisti. Il Fatto raccomanda di esercitarsi nell’«ibridazione» e nella «contaminazione». Si vedrà. Già è chiarissimo l’accantonamento dei social, passati improvvisamente di moda, o quanto meno apparentemente messi in secondo piano. Soltanto una settimana fa, proprio Conte chiese una pausa nelle trattative con il Pd perché doveva registrare un breve video sull’immigrazione da mettere su Facebook. Impensabile, adesso. Pochi selfie, pochissimi post, dirette zero. Al netto delle foto ufficiali del governo, non esiste ancora una foto degli alleati di maggioranza. È sparito pure uno costante e ossessivo come Alessandro Di Battista, del quale sopravvivono gustosi video a sfondo piastrelle dei bagni di Montecitorio quella volta in cui si apprestava a protestare sul tetto della Camera, e aveva «un po’ di paura», perché «magari ci arrestano». Era il 6 settembre 2013, esattamente sei anni fa. Ora la linea modaiola la dà la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese: social zero, inarrivabile. Superato anche il problema di allungare la settimana lavorativa: i Consigli dei ministri del venerdì sono stati anticipati al giovedì. Dopo, trolley libero.

Perché il post populista non protesta. Semmai per il weekend va in Costa Smeralda, a Porto Cervo, come Di Maio quest’estate con la fidanzata. Certamente non in piazza. Ci stava nel 2013, per gridare contro la rielezione di Giorgio Napolitano, o festeggiare la restituzione dei soldi ai cittadini. Adesso, smantellato il sito «ti rendiconto», sparito qualsiasi segnale di trasparenza nelle spese, al capo dello Stato il post-populista tributa i dovuti omaggi e ringraziamenti. Altro che scombinate richieste di impeachment. E se ne frega di dare l’immagine d’assalto alle poltrone: pensa al bene dell’Italia, lui. Si sacrifica e accetta l’incarico, come un Clemente Mastella di nuovo conio. Una volta c’era la selezione dei curriculum: adesso c’è l’arrembaggio al sotto-governo. Così, quando per scrollarsi di dosso l’accusa di fare tutto da solo, il neo ministro degli Esteri ha chiesto ai componenti del Movimento delle varie commissioni parlamentari di riunirsi e presentare una rosa di sottosegretari, l’effetto finale è stato una ressa da campagna elettorale: «Mancavano giusto i santini», ha confessato un senatore, stellato e sconfortato.

È difficilissimo trovare la strettoia per non apparire establishment pur disertando la piazza. Eppure il post-populista – che da un pezzo ha abbandonato la retorica di taxi, autobus e camminate a piedi, e se deve giurare al Quirinale ci va in auto blu – sta ventre a terra, dritto verso l’obiettivo. Punta ad esempio a farsi chiamare «Giuseppi» e ad intrecciare scambi con Angela Merkel e il suo stampino a Strasburgo, la neopresidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: altro che meeting con i gilet gialli, coi movimenti per la casa croati o quelli degli allevatori greci. Non tornerà più all’epoca degli incontri con il siriano Bashar-Al Assad (lo fece l’europarlamentare Fabio Massimo Castaldo), o dei convegni sull’Alleanza bolivariana per le Americhe. L’intero terzomondismo è diventato fuorimoda. No a Maduro, no ad Hamas, no a Bolsonaro. Appena pochi mesi fa, Di Maio dava la colpa delle sconfitte alle regionali al fatto di essere contro le banche, la finanza, i petrolieri, insomma i poteri forti. Adesso siamo al viva europeismo e atlantismo. Ergo, la Russia di Putin andrà posizionata sempre chiaramente su un piano diverso dagli Stati Uniti: questi sono partner storici, con quella si hanno delle «interlocuzioni» – una linea, come ha ricordato Repubblica, che correva parallela già nei discorsi di Di Maio nel gennaio 2018, quando il capo politico dei Cinque Stelle incontrava per la prima volta alcuni dei suoi futuri ministri alla Link University di Vincenzo Scotti. Da non dimenticare che Gianroberto Casaleggio frequentava il Forum Ambrosetti di Cernobbio: non propriamente un centro sociale.

Pro-establishment, il post populista potrebbe rivelarsi alla fine un facilitatore nel ritorno all’antico, addirittura. Ai tempi del governo Lega-Cinque Stelle, usava sottolineare il «ribaltamento totale delle prospettive: non più destra e sinistra, ma popolo contro élite». Adesso, come dice Massimo D’Alema intervistato dal Corriere, si punta a un nuovo bipolarismo: «Con il centrosinistra di qua e la destra di là». Certo sarebbe un capolavoro politico: dopo aver scardinato i due poli rimontarli, tipo Lego.

Una volta scoperto a proprie spese che – in effetti – una destra esiste (e gli ha succhiato via i voti), il post populista ha smesso di urlare, di fare in Aula il gesto delle manette o sui balconi quello della vittoria come si fosse a un reality show. È sobrio, elegante, misurato. Dopo i «Vaffa», inclina al coniglio mannaro, al forlanismo, all’andreottismo. Predilige quindi un «lessico più consono e più rispettoso», come ha invitato a fare il premier parlando alla Camera. Evita volgarità come «sovranismo», «sovranisti», «costi», «tagli», «Pd», «Cinque Stelle». Non parla mai di «Tav»: è consentito accennarvi soltanto se si è parlamentari piemontesi, e comunque di sfuggita. Meglio picchiare sulle trivelle, in attesa di capire quale verbo è più adatto al capitolo concessioni autostradali/Benetton (per ora il dibattito è tra «revocare» e «revisionare»).

Bisogna del resto essere comprensivi. Il post-populista, dopo aver inventato la categoria «taxi del mare», si trova davanti a un enigma. Non può più cavalcare la politica dei porti chiusi, ma nemmeno riaprirli: in un caso e nell’altro finirebbe dritto in bocca a Matteo Salvini. Doveva, questo sì, aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, ma adesso si ritrova a fare il tonno: e nemmeno della miglior qualità. Lo disse, durante un’infuocata assemblea di fine agosto, proprio Federico D’Incà, quando ancora non era ministro dei Rapporti con il Parlamento: «La scatoletta che volevamo aprire è quella in cui ora siamo dentro, noi siamo il tonno, varietà pinna gialla. Salvini aveva preparato la mattanza, era pronto a ucciderci. Poi un tonno più grande, che si chiama Matteo Renzi ed è un pinna rossa, ha aperto un buco nella rete, indicandoci la strada per fuggire. Perché dovremmo rinunciare a salvarci?», fu la ficcante metafora.

Ecco, adesso che si è salvato il post-populista a Cinque Stelle si ritrova dalla parte della restaurazione. «Non capiscono cosa facciamo, ma diamo fastidio a tutti», disse Beppe Grillo nel teatro Smeraldo di Milano dieci anni fa, fondando il Movimento. Adesso siamo agli antipodi: cosa stiano facendo è chiarissimo, il fastidio però è ridotto a zero. E la terribile domanda è: accadrà anche stavolta a loro insaputa?

L’ESPRESSO

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