Cosa serve davvero nel rapporto con Pechino

Per comprenderlo basta considerare i settori ai quali si riferisce il «memorandum d’intesa» che l’Italia dovrebbe sottoscrivere a fine mese, forse in coincidenza con la visita di Xi Jinping: porti (Trieste e Genova) , ferrovie, aeroporti, autostrade e ponti, energia, telecomunicazioni.Tutti inseriti in un «progetto di connettività infrastrutturale» , secondo la definizione del Presidente del Consiglio Conte. Tutti settori, aggiungiamo noi, idonei a fare da trampolino alla Cina che dal Mediterraneo vuole raggiungere con il suo tsunami commerciale il centro e il nord Europa, dopo aver piantato radici in Ungheria e in Polonia ed essersi assicurata il porto del Pireo in Grecia oltre ad una fortissima presenza in Portogallo.

Davvero è difficile individuare in questa espansione mercantile a tenaglia una manovra anche geopolitica? Sembrerebbe di sì, almeno in Italia. Conte è favorevole «poste le opportune cautele» che peraltro non precisa. I 5Stelle rinunciano anche alle cautele e vedono un radioso futuro per la crescita dell’Italia grazie ai massicci investimenti cinesi. La Lega non è contraria ma è più prudente, capisce i possibili problemi. Ed è singolare che leghista sia il principale e quasi solitario artefice del pre-accordo con Pechino, il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci. Ottimo conoscitore della Cina dove ha lavorato dieci anni, Geraci assicura che non ci sono rischi, che è stata Pechino a venire sulle nostre posizioni, che il memorandum è un accordo-quadro e che i progetti specifici e operativi figureranno in documenti successivi.

Eppure l’America si allarma e con metodo firmato Trump minaccia conseguenze negli investimenti statunitensi. Eppure l’Italia sarebbe il primo Paese del G-7 a sottoscrivere un accordo con la Cina sulla Bri. Eppure l’Italia, firmando davanti a Xi Jinping, finirebbe per sabotare una eventuale posizione comune europea nei confronti di Pechino, posizione che negli stessi giorni sarà discussa a Bruxelles. Eppure c’è chi sospetta che il governo, davanti alla nube nerissima che incombe sull’economia italiana e sulla prossima finanziaria, sia pronto ad aggrapparsi alla ricca proposta cinese per non colare a picco.

Che fare, allora? Bendarsi gli occhi e firmare con i cinesi? Ascoltare l’America e fare marcia indietro? A nostro avviso in entrambi i casi rinunceremmo a difendere l’interesse nazionale italiano.

Firmare un memorandum d’intesa con una grande potenza come la Cina senza aver preventivamente approfondito il progetto in tutte le sedi competenti (compresi i Servizi, la Difesa e la Farnesina) e senza opportune consultazioni informative con altri Paesi (valga l’esempio della Germania che ha aperto un difficile dialogo con Pechino sulle insidie del 5G della Huawei e sulle garanzie di sicurezza, e non è ancora soddisfatta) , sarebbe una imprudenza che potremmo pagare cara. Troppo tardi, si dirà, non possiamo fare ora un clamoroso giro di valzer. Allora andrebbe individuato chi ha ballato troppo presto, ma se proprio non si può dobbiamo almeno restringere al massimo la portata del memorandum e adottare un metodo diverso per i singoli progetti che verranno in un secondo tempo. E dire «sì» , se possibile assieme ad altri europei, soltanto dopo che le necessarie garanzie politiche e di sicurezza saranno state date e sottoscritte dai cinesi.

Quanto all’America, dovremmo ormai essere abituati (come europei, più che come italiani) ai moniti di Donald Trump. E’ comprensibile che Washington non voglia la penetrazione cinese nel Vecchio Continente, ma è proprio la filosofia dell’America First, e sono proprio i dispetti commerciali transatlantici e una certa ostilità verso le ambizioni europee ad averla favorita. Se l’Europa sopravviverà alle elezioni di fine maggio come è probabile, e se avrà la forza di consolidare le sue capacità di difesa autonome (anche con la Gran Bretagna del dopo-Brexit) varando parallelamente un processo di integrazione differenziata, risulterà più evidente che l’America non ha meno interesse di noi all’esistenza della Nato, e che l’Europa, tutta o in parte, potrà avere i «suoi» rapporti con la Cina senza per questo dover incorrere nei fulmini degli Stati Uniti. Alleati e amici, certo, ma non decisori unici. La Cina può far parte dell’interesse nazionale italiano. A condizione che il governo italiano capisca per tempo quale partita epocale sta giocando.

CORRIERE.IT

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