Archive for Giugno, 2022

L’instabilità spinge il Draghi dopo Draghi. Partiti già in subbuglio per le elezioni 2023

mercoledì, Giugno 29th, 2022

Adalberto Signore

C’è chi lo racconta come lo scenario più temuto e chi, invece, lo auspica come la migliore delle soluzioni possibili. Di certo, c’è che l’inatteso esito elettorale di una tornata amministrativa che sulla carta avrebbe dovuto dire poco, ci consegna un panorama politico di instabilità e confusione. Scricchiolano le coalizioni, da una e dall’altra parte. Con il centrodestra alle prese con una resa dei conti che ormai da anni viene costantemente rinviata a data da destinarsi e il centrosinistra che vede compromesso quel «campo largo» sul quale Enrico Letta avrebbe voluto costruire l’imminente campagna elettorale. Da una parte domina il conflitto – ormai più umano che politico – tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Dall’altra si fanno i conti con la variabile impazzita di Giuseppe Conte, che un giorno minaccia il suo personale Papeete (ma senza avere il coraggio di andare fino in fondo) e quello dopo viene richiamato all’ordine da un Beppe Grillo che quasi sembra commissariarlo.

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Scambio di accuse tra Salvini e Meloni per la “fatal Verona”. L’idea di un vertice per non dividersi

mercoledì, Giugno 29th, 2022

Paolo Bracalini

Altro che «pace di Verona», com’era stata battezzata al primo turno l’alleanza Lega-Fdi. Dopo il ballottaggio perso clamorosamente nella città scaligera si riapre il varco tra Salvini e la Meloni, che si rinfacciano vicendevolmente la sconfitta, lì ma anche altrove. È un braccio di ferro che va avanti da mesi e che è costato già parecchio al centrodestra e, se non risolto, rischia di portare ad altre sconfitte pesanti (il voto in Sicilia è dietro l’angolo ma gli accordi sono lontani, quello in Lombardia poco più dopo e già si registrano tensioni).

Entrambi i leader, il giorno dopo, non fanno nomi ma è molto chiaro a chi si riferiscano. Dice Salvini: «Non è possibile perdere città importanti perché il centrodestra si divide e sceglie di non allargarsi e di includere altre forze ed energie, per paura, per calcolo o per interesse di parte». Il calcolo e l’interesse di parte sarebbe ovviamente quelli della Meloni, che secondo il leader della Lega sta giocando da tempo una partita tutta per sè, anche a livello nazionale, per aumentare i consensi ai danni degli alleati (e infatti la Meloni commentando i risultati ci tiene a rivendicare che Fdi «ha fatto da traino alla coalizione al primo turno). La sua lettura è tutta all’inverso rispetto a Salvini: «Ho trovato curiosa la polemica sul mancato apparentamento a Verona da parte degli alleati con tanto di attacco al sindaco a urne aperte, mentre a Catanzaro Fdi sosteneva lealmente un candidato che ci aveva negato l’apparentamento. Occorre ricordarsi che l’avversario è sempre la sinistra e mai il partito alleato» commenta la Meloni, secondo la quale (soprattutto) la Lega sarebbe impegnata più a contrastare la crescita di Fdi e ad ostacolare la sua leadership più che a combattere gli avversari di sinistra. L’«attacco al sindaco ad urne aperte» di cui parla è un’altra frecciata diretta a Salvini, che in una intervista domenica mattina aveva dato per perdente Sboarina. I leghisti fanno notare gli errori della Meloni, «già aveva sbagliato alle comunali di Roma puntando su Michetti, Sboarina non ha ubbidito alla sua indicazione di apparentarsi e Musumeci sembra fare di testa sua». Morale leghista: le sue prove da leader di centrodestra non sono granché. I meloniani invece suggeriscono di guardare fuori Verona per vedere le colpe degli alleati: «Ad Alessandria, dove FdI è il primo partito, abbiamo perso con il candidato Lega, e a Monza dove non è stato rieletto il sindaco uscente di FI» dicono dal quartier generale della Meloni.

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Ius Scholae, un dovere morale

mercoledì, Giugno 29th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

C’è una legge su cui si combatte da anni che sancisce un principio tanto semplice quanto inoffensivo: se sei un bambino e vivi in Italia da molto tempo, se frequenti le nostre scuole, se magari sei nato qui da genitori arrivati da lontano, per avere la cittadinanza italiana ti basta fare una richiesta al tuo Comune. E nessuno troverà strani motivi per non concedertela. Viste da chi vive nel mondo reale, quello in cui i nostri figli hanno compagni di classe filippini, cingalesi, rumeni, ucraini, russi, cinesi, le ragioni di chi si oppone a questa legge, che nella sua nuova versione si chiama “ius scholae”, ma è già stata “ius culturae” e prima ancora “ius soli temperato”, sono incomprensibili.

Ci sono un milione e mezzo di ragazzi nati o cresciuti in Italia che aspettano la cittadinanza. Di questi, 877mila sono studenti. Magari non hanno le gambe lunghissime, non volano nei 100 metri, non sono star di Tik Tok, ma a quella cittadinanza avrebbero diritto perché non si tratta di un premio. «Devi maturarla», ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini mentre il suo partito faceva di tutto per ostacolare la legge alla Camera. «Bisogna aspettare i 18 anni per richiederla, come adesso», ha spiegato più volte. E peccato che quelle richieste siano spesso evase con molta lentezza, almeno due anni, quando non mancano documenti, continuità abitativa e chissà che altro. E’ un percorso tardivo, lungo, a ostacoli. «Cosa cambia?», chiede sempre chi non capisce cosa sia una discriminazione. Cambia che se sei un campione e vuoi correre con la maglia dell’Italia, il Paese di cui ti senti parte, non puoi. Ma cambia anche che se sei un ragazzo normale, hai finito gli studi e vuoi fare un concorso pubblico, ti è vietato l’accesso. Cambia che tu sei uguale, ma la burocrazia di uno Stato cieco ti legge diverso. E se anche hai le stesse passioni, lo stesso dialetto, gli stessi interessi del ragazzino figlio di italiani che ti siede accanto sui banchi di scuola, ci sarà qualcuno – in un ufficio pubblico, mentre invii un documento, fai una gara o un concorso – che ti dirà no, non lo sei. In tutte le rilevazioni recenti, almeno il 60 per cento degli italiani si dichiara favorevole alla cittadinanza per i bambini figli di immigrati. Perché nessuno, neanche chi vi si oppone, è in grado di negare una verità incontrovertibile: maggiori diritti portano maggiore integrazione. Se sono i contrasti sociali quelli che si temono, è ampliando la sfera dell’accoglienza che li si combatte, non restringendola.

E così, lo Ius scholae diventa il perfetto terreno di incontro tra diritti civili e diritti sociali. E ha come luogo di elezione la scuola, l’istituzione che per antonomasia è il luogo di emancipazione di ogni cittadino. Perché deputata, da sempre, a costruire possibilità, ad abbattere diseguaglianze. Fallire adesso su una legge che consente a chi è nato qui da genitori stranieri, o è arrivato da piccolo e ha concluso un ciclo scolastico, di diventare italiano, sancirebbe – ancora una volta – il distacco del Parlamento dal Paese reale. Come per il fine vita. Come per il ddl Zan. A chi dice «non serve», basta ricordare cos’è successo a Lodi solo cinque anni fa. Quando l’amministrazione leghista della città decise che per consentire ai figli di immigrati di accedere alle mense e ai pulmini scolastici a prezzo agevolato, come per tutte le persone con redditi bassi, serviva qualcosa in più. Una “certificazione relativa al patrimonio di beni immobili rilasciata dagli Stati di origine e corredata di traduzione in italiano legalizzata dall’Autorità consolare italiana”. Era un documento difficilissimo da reperire. Ed era, a tutti gli effetti, una trappola. Un modo per praticare una discriminazione. Su dei bambini. Costringendoli a tornare a casa per pranzo o a mangiare panini da soli in classe. Si sono mossi i comitati cittadini e l’Asgi, l’associazione Studi Giuridici.

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Superbonus 110%, stop a nuove proroghe: e chi ha iniziato i lavori? Sconto in fattura e cessione dei crediti: sì allo sblocco dei cassetti fiscali

mercoledì, Giugno 29th, 2022

PAOLO BARONI

Sul superbonus del 110% il governo non intende impegnare altre risorse, al massimo si può ragionare su un ulteriore allargamento delle maglie per agevolare la cessione dei crediti. Per cui è esclusa ogni nuova proroga, che pure i partiti hanno chiesto allo scopo di dare più tempo per effettuare i lavori nelle villette, nelle case popolari e negli spogliatoi degli impianti sportivi.

In vista dell’approdo in aula alla Camera del decreto aiuti previsto per lunedì ieri la questione è stata al centro di un altro braccio di ferro, l’ennesimo, che ha visto contrapposto il governo e la maggioranza, a partire dai 5 Stelle che continuano a difendere strenuamente quello che considerano un loro provvedimento.

Nel pomeriggio, mentre da Napoli rimbalzava la notizia dell’ennesima mega truffa da 772 milioni di euro per lavori effettuati su edifici inesistenti e ben 143 indagati, alla Camera si è tenuta una nuova riunione governo-maggioranza. Al vertice erano presenti il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, la viceministra all’Economia Laura Castelli, la sottosegretaria ai rapporti con il Parlamento Debora Bergamini ed un rappresentante per ogni gruppo. Pochi i passi avanti.

Secondo il ministero dell’Economia i soldi sono finiti e quindi non c’è spazio allungare la durata di un provvedimento che serve a migliorare l’efficienza energetica delle abitazioni. «La proroga? Questo è certamente un tema – spiega Gian Mario Fragomeli, capogruppo Pd in Commissione Finanze – ma in questa fase la priorità deve essere lo svuotamento dei cassetti fiscali». Da un lato infatti le banche continuano a rifiutarsi di accettare nuovi crediti dai proprietari degli immobili e dalle imprese che effettuano i lavori, perché hanno esaurito il loro spazio fiscale, e dall’altro non passa giorno che associazioni di settore e operatori economici non denuncino il rischio crac a cui va incontro il comparto delle costruzioni in assenza di novità in grado di sbloccare tutte le operazioni. Ultimi in ordine di tempo i vertici della Cna che ieri sono stati ricevuti dal ministro dell’Economia Daniele Franco che a sua volta ha fatto sapere di aver «ascoltato con attenzione» tutte le osservazioni

Un emendamento presentato la scorsa settimana dalla maggioranza metteva sul tavolo una serie di soluzioni per cercare di far ripartire il mercato dei crediti fiscali aggiungendo alla possibilità per le banche di poter effettuare una terza cessione, anche quella di poter utilizzare i crediti fiscali anche dopo il 2022 e di convertirli in Btp come pure quella di ampliare la platea dei soggetti che potrebbero acquistarli. Al riguardo, stando al presidente della Commissione finanze Luigi Marattin (Iv), la maggioranza alla fine ha convinto il governo ad allagare «al massimo» la platea a cui le banche potrebbero rivendere i crediti. La versione iniziale del «dl Aiuti» prevedeva che le banche potessero cederli anche ai propri correntisti classificati come «clienti professionali privati», ovvero imprese di grandi dimensioni con bilanci di 20 milioni di euro, fatturato netto di 40 milioni o fondi proprio per due milioni. L’emendamento condiviso da Pd, 5 Stelle, Leu, Forza Italia e Coraggio Italia lo estendeva a tutte le partite Iva che presentano un bilancio di almeno 50 mila euro.

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Covid, la nuova ondata rischia di far “richiudere” l’Italia

mercoledì, Giugno 29th, 2022

Paolo Russo

Nessuno lo avrà mai ufficialmente proclamato, ma a metà luglio, quando l’ondata anomala estiva del Covid dovrebbe aver raggiunto il suo picco, una bella fetta d’Italia rischia di essere di nuovo in lockdown. Perché in isolamento domiciliare si potrebbero ritrovare due milioni di italiani se non di più. Che sommati a quelli in ferie rischiano di mandare in tilt servizi essenziali, come quelli finalizzati alla nostra sicurezza, i trasporti, la protezione civile già sotto stress tra siccità e incendi, la stessa sanità, dove in media tra luglio e agosto metà del personale se ne va in vacanza, mettendo fuori uso un letto su tre. E a ieri già 6.035 erano occupati da pazienti positivi al virus.

L’ultimo bollettino ha fatto segnare il record di contagi dal 27 aprile scorso: 83.555 e 69 morti, con il tasso di positività dimezzatosi in 24 ore all’11,6%, ma solo per il boom di tamponi eseguiti, ben 717mila. E anche questo è indice di quanto il virus stia circolando, molto sottotraccia.

Il numero che comincia a preoccupare di più è però quello degli italiani in isolamento domiciliare, che sono ben 767mila ma che sarebbero in realtà molti di più, almeno un milione secondo gli esperti del ministero della Salute. Ai numeri ufficiali occorre infatti aggiungere quelli di chi per non restare intrappolato sette o più giorni chiuso in casa il tampone se lo fa da sé, senza denunciare il proprio stato di positività. I positivi sommersi sarebbero almeno altrettanti di quelli ufficiali. Ma magari alcuni di loro momentaneamente fuori uso lo sono comunque, perché non sempre Omicron 5 è una passeggiata. Ecco così che si arriva alla stima minima di un milione. Che potrebbero raddoppiare in due settimane, considerando che negli ultimi sette giorni i contagi sono cresciuti del 52%, trainandosi dietro con uguale velocità gli isolamenti domiciliari causa Covid. Contemporaneamente salgono anche i ricoveri, in particolare quelli nei reparti ordinari, dove 15 giorni fa i letti occupati erano 4.210 a fronte dei seimila e passa di ieri. Ma il tasso di occupazione è ancora al 9,4%, distante dalla prima soglia d’allerta del 15. E comunque la crescita è nettamente più lenta di quella dei contagi, mentre la curva dei decessi per ora resta stabile.

Difronte a questo quadro gli esperti si dividono sul fatto se sia sensato o meno mantenere l’isolamento dei positivi. O perlomeno di quelli asintomatici. Nel partito nel no alla cancellazione dell’obbligo si sono iscritti esperti del peso di Franco Locatelli (presidente del Consiglio superiore di sanità), Walter Ricciardi (consigliere di Speranza) e Guido Forni (immunologo dell’Accademia dei Lincei). Il ragionamento a favore della quarantena si può sintetizzare così: «In primo luogo lasciando liberi i positivi di circolare mettiamo in pericolo i più fragili, che vuoi per l’età, vuoi per le loro malattie hanno un sistema immunitario che li espone alla minaccia della malattia grave, anche se vaccinati. In secondo luogo favorendo la maggiore circolazione del virus ne favoriamo anche le mutazioni, che non è detto siano sempre in meglio». Terza ragione del no è che l’aumento dei contagi indotto dal liberi tutti dei positivi metterebbe ancora più a rischio la tenuta dei servizi essenziali che si vorrebbero tutelare.

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L’Occidente unito manda un segnale allo zar

mercoledì, Giugno 29th, 2022

di Paolo Valentino

La democrazia sarà anche un esercizio complicato e difficile. Ma il messaggio di unità e determinazione che gli alleati occidentali lanciano a Vladimir Putin in queste ore non può essere equivocato. In una sorta di grande slam iniziato la scorsa settimana al Consiglio europeo a Bruxelles, proseguito al G7 chiusosi ieri sulle Alpi bavaresi e giunto oggi all’appuntamento conclusivo del vertice Nato a Madrid, l’Occidente dice al leader del Cremlino che è pronto a contrastare le sue mire imperiali e la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina «per tutto il tempo che sarà necessario». E che intende far salire i costi politici e economici che il capo Cremlino deve affrontare, in modo da costringerlo un giorno a sedersi al tavolo del negoziato.

Che poi le nuove misure e sanzioni messe in cantiere contro Mosca abbiano ancora bisogno di tempo per essere operative, come il price cap su gas e petrolio fortemente voluto da Mario Draghi, toglie poco al valore di questo risultato. Sul piano della tempistica, in primo luogo. Dopo l’escalation su Kaliningrad e l’annuncio di Putin di voler consegnare i missili Iskander alla Bielorussia, eventualmente armati di testate nucleari, era assolutamente necessario mandare un segnale chiaro, in grado di rompere i calcoli dello Zar.

Il quale sembra avvertire la pressione. Proprio ieri ha iniziato il suo primo viaggio all’Estero da quando è cominciata la guerra, diretto ad Ashgabat, in Turkmenistan, per un vertice dei Paesi del Mar Caspio. Prima però Putin ha trovato il tempo di ribattere piccato a Draghi, il quale citando il presidente indonesiano, aveva escluso la sua presenza al G20 di novembre a Bali: «Non decide il premier italiano sulla partecipazione di Putin al vertice», ha detto il suo consigliere Jurij Ushakov. Se non è nervosismo questo.

Due figure di leader emergono dal vertice di Elmau. Quella del presidente americano Joseph Biden, che ha fatto della compattezza e dell’unione delle democrazie occidentali nel sostegno all’Ucraina il suo tema, restituendo agli Stati Uniti un ruolo di guida: senza la forza militare, economica e politica americana l’Occidente non ci sarebbe. E senza le armi fin qui fornite dagli Stati Uniti, la causa ucraina sarebbe già finita.

Ma questo non può e non deve significare affidarsi in tutto e per tutto all’America, tanto più che gli equilibri politici degli Stati Uniti sono così fragili da rendere perfettamente plausibile anche un ritorno dell’incubo Trump al potere fra meno di tre anni. Per questo è stato importante che dopo alcune false partenze, anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz abbia fatto la sua parte. Superate le incertezze sulle forniture d’armi tedesche all’Ucraina, Scholz ha saputo interpretare bene il ruolo di presidente di turno del G7. Non ultimo, cercando di ampliarne il raggio d’azione, con l’invito ai leader di Senegal, Indonesia, India, Argentina e Sud Africa, nel tentativo di trovare punti in comune con quei Paesi che non si sono schierati e continuano ad avere rapporti con Mosca. È un modo per definire una «Gestaltungswille», una volontà creativa europea. Ed è una strada che Mario Draghi considera valida anche per il futuro: «Se si vuole che i nostri temi, come la difesa delle democrazie e il rifiuto delle autocrazie, si diffondano, occorre avvicinare e rendere compartecipi anche altri Paesi».

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Finlandia e Svezia nella Nato, Stoltenberg: «Putin ottiene il contrario di ciò che voleva»

mercoledì, Giugno 29th, 2022
Le parole del segretario generale della Nato

Agenzia VISTA / Alexander Jakhnagiev / CorriereTv

Madrid, 28 giugno 2022- «Quello che è successo ora è forse il processo più veloce in assoluto finora, poche settimane dopo aver fatto domanda per l’adesione. Quindi è più difficile immaginare un processo più rapido finora. E questa è una buona cosa perché ci troviamo di fronte a una situazione di sicurezza molto critica in Europa. E invia anche un messaggio molto chiaro al presidente Putin che le porte della Nato sono aperte. Bisogna ricordare che nel dicembre dello scorso anno il presidente Putin ha proposto i cosiddetti trattati di sicurezza da firmare con Nato. E uno dei messaggi più importanti del presidente Putin era che era contrario a qualsiasi ulteriore allargamento della Nato. Voleva meno Nato. Quindi quello che ottiene è l’opposto di ciò che ha effettivamente chiesto». Queste le parole del segretario generale della Nato Stoltenberg nel corso della conferenza stampa dopo che Turchia, Finlandia e Svezia hanno trovato un accordo sulla presenza delle ultime due nazioni nella Nato. / Nato

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Allerta caldo, così le ondate saranno la norma e si sposteranno sempre più a Nord

mercoledì, Giugno 29th, 2022

di Massimo Sideri

L’esperto Antonello Pasini (Cnr): «Il ruolo svolto dall’uomo nel cambiamento climatico è innegabile. La parola d’ordine è gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile»

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La grande secca del fiume Po tra Pieve Porto Morone (Pavia) e Castel San Giovanni, nel Piacentino (foto Ansa)

«La parola d’ordine è gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile». Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr e docente dell’Università Roma Tre, non gira intorno al problema: il suo ultimo libro, non a caso, si intitola «L’equazione dei disastri». Di fronte alle ondate di calore «che viviamo ormai da due mesi», viene meno anche quella naturale prudenza che gli scienziati del clima hanno nel collegare troppo direttamente i fenomeni puntuali, come una giornata di caldo record. «Noi scienziati del clima siamo sempre molto cauti nell’attribuire all’attività antropica la variabilità estrema del clima, ma il problema è che ne vediamo così tante di ondate di calore che la relazione di fondo ormai è fuori di dubbio. Ciò che stiamo osservando rispetta ciò che i modelli ci avevano predetto».

Che succede?

«Il problema vero — continua Pasini — è che negli ultimi decenni abbiamo avuto non solo un aumento netto delle temperature ma anche delle ondate di calore soprattutto nel Mediterraneo. Il riscaldamento di natura antropica — e questo ormai lo sappiamo — si sta spostando verso Nord. Ora, mentre prima il semestre caldo era caratterizzato dall’anticiclone delle Azzorre, quello di cui parlava il famoso Colonnello Bernacca, oggi abbiamo l’anticiclone africano che prima rimaneva sul deserto del Sahara. È questa la ragione scientifica che crea queste ondate di calore che vediamo da quasi due mesi. Le stesse che portano con sé la siccità perché tipicamente l’anticilone crea una zona dove non piove mai».

Cosa è cambiato?

A cambiare tra l’anticiclone delle Azzorre e quello africano che ha allargato il proprio campo di azione è la maggiore potenza e durata. L’equazione del disastro è molto complessa, ma gli effetti si vedono. Il primo, declina Pasini, è che «quando ci troviamo sul margine occidentale dell’anticiclone, come sta accadendo in questo periodo, entrano i venti dello scirocco che possono essere anche molto poderosi. È vero che non esiste l’autocombustione ma questa situazione favorisce l’espansione degli incendi e anche la difficoltà a spegnerli. Non è un caso che lunedì Roma fosse accerchiata dai roghi».

L’anticiclone

Non finisce qui: «La temperatura che aumenta fa sì che la neve cada sempre a quote più elevate e questo alimenta la siccità della Pianura Padana: due o trecento metri di neve in meno coincidono con una grande quantità di acqua che ci perdiamo perché la pioggia violenta scorre e non viene immagazzinata». L’effetto domino potrebbe continuare: meno acqua significa meno possibilità di usare le centrali idroelettriche, dunque meno energie rinnovabili. «Quando infine, come è accaduto a Nord Ovest negli ultimi due giorni,— conclude Pasini — l’anticiclone si ritrae un po’ entrano delle correnti fredde e a causa del contrasto con il mare caldo e il suolo caldo accadono i disastri».

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Putin, ecco come sorveglia la popolazione russa usando la tecnologia occidentale

mercoledì, Giugno 29th, 2022

di Milena Gabanelli e Francesco Tortora

Internet? Non ti faccio vedere nulla, oppure controllo quello che puoi vedere, o addirittura creo una Rete parallela in modo che tu possa navigare solo lì. Nei Paesi democratici fortunatamente questo tipo di filtro non è applicabile, ma, come le inchieste di Dataroom continueranno a dimostrare e denunciare, troppo spesso i sistemi di controllo della Rete non riescono a contenere l’uso criminale del Dark Web: vendita di armi, droga, farmaci illegali, pedopornografia, furti di dati e pagamenti di riscatti in criptovaluta, ecc. Insomma il sistema Tor, che consente di navigare in incognito, trova ancora argini ridotti. Senza dimenticare che in nome della libertà di pensiero sul Web prolifera ogni genere di fake news e propaganda. Il paradosso è rappresentato dall’altra faccia della medaglia: i sistemi di controllo applicati dai regimi autoritari invece funzionano benissimo, ma vengono utilizzati per la repressione del dissenso. Vediamo quali sono i meccanismi che li governano e in che modo l’Occidente è complice.

Oscuramento del Web

Il primo governo a bloccare la Rete è quello di Mubarak in Egitto. Nel gennaio 2011, dopo le manifestazioni di protesta in piazza Tahrir, l’allora presidente ordina il blackout e il Paese rimane per cinque giorni quasi completamente disconnesso. La strategia fallisce, ma dimostra come senza Rete sia molto più facile reprimere il dissenso. Il blackout più lungo lo mette in pratica il Pakistan nel 2016 e dura 4 anni e mezzo. Per stare agli esempi più recenti, nel luglio 2021 il governo di Cuba oscura la Rete per 176 ore in risposta alle manifestazioni di protesta per la mancanza di cibo e per la gestione del Covid. Sempre nel 2021, la democratica India chiude Internet ben 85 volte nella regione ribelle del Kashmir, confermandosi per il quarto anno consecutivo il Paese con più blackout digitali (106 complessivamente solo quell’anno tra cui la disconnessione di New Delhi per sedare le proteste dei contadini). La giunta militare del Myanmar da febbraio 2021 torna ad amministrare con il pugno duro l’ex Birmania e ordina ben 15 interruzioni: la più lunga dura quasi 2 mesi e mezzo.

Access Now, associazione no profit che si batte per Internet aperto, documenta almeno 935 chiusure totali o parziali in più di 60 Paesi dal 2016. Se nel 2018 i Paesi che optano per il blackout sono 25, ora sono 34. Lo fanno scattare quando, a loro dire, sono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale.

Filtraggio delle notizie

Per bloccare la Rete in intere regioni a Mosca c’è un centro di censura con uno staff di 70 persone guidato dall’ex ufficiale dei servizi segreti Sergey Khutortsev. Il sistema si basa su 30 server forniti dalla cinese Lenovo e altri 30 dall’americana Super Micro Computer Corp. Ma all’oscuramento del Web la Russia, insieme ad altri Paesi come Bielorussia, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Siria, Turkmenistan, Thailandia e Turchia, preferisce sistemi di controllo più elaborati come la «Deep Packet Inspection» (Dpi): è la tecnica che filtra i dati in transito sulla Rete bloccando app e piattaforme sulla base di criteri prestabiliti, ma consentendo le altre attività.

Da marzo 2022 Mosca chiude i principali social network occidentali (Facebook, Instagram, WhatsApp, ecc.) e poco le importa se la decisione porta a perdite stimate per oltre 7,9 miliardi di dollari.

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Russia esclusa dal prossimo G20? La risposta di Draghi scatena l’ira di Putin

mercoledì, Giugno 29th, 2022

di Marco Galluzzo

Il presidente del Consiglio riferisce la posizione degli indonesiani, che ospiteranno il summit. E cita un proverbio («quando gli elefanti lottano, l’erba soffre») per chiedere più condivisione

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Dal nostro inviato
GARMISH-PARTENKIRCHEN — La morale di un vertice con un programma condizionato anche dal Cremlino, dal timing di lancio dei missili sull’Ucraina, prende forma nelle parole di Mario Draghi alla fine dei lavori. Il premier rammenta un proverbio africano, negli anni ’80 andava di moda «quando ero alla Banca Mondiale». È semplice, ma aderisce alla perfezione alla situazione geopolitica e internazionale: «Diceva che quando gli elefanti lottano è l’erba che soffre».

Al G7 che si chiude hanno partecipato anche Paesi cosiddetti «minori»: dall’Argentina al Sudafrica, dall’Indonesia al Senegal, sino all’India. E tutti, ci tiene a rimarcare il capo del governo, hanno un atteggiamento «abbastanza neutrale» sulla guerra, ma anche perché finora «non sono stati avvicinati». Invece dalla discussione è emerso che «desiderano essere coinvolti». L’insegnamento del proverbio può essere declinato così, conclude Draghi: «Se i Paesi si sentono erba soffrono, ed è difficile chiedere loro di prendere parte».

Si può prendere parte alle sanzioni che finora non si sono applicate, alle decisioni delle Nazioni Unite che dovranno essere condivise (magari a quella imminente sul grano e sullo sblocco del porto di Odessa), alla scelta che oggi più che mai — continua Draghi — «è per la difesa delle democrazie, l’avversione alle autocrazie». Per questo non si può emergere vincenti se non si prende consapevolezza «che noi del G7 siamo anche il foro internazionale più importante, più potente, più ricco, ma siamo minoranza, in termini di popolazione e opinione». E non si vince una guerra che è anche fra diverse visioni del mondo e del futuro se non si coinvolgono gli attori più piccoli, sino a «renderli compartecipi dei momenti fondamentali».

Nel caso specifico tocca all’Indonesia sentirsi schiacciata dagli elefanti. Nel castello della Baviera è arrivato anche il presidente che a ottobre ospiterà il G20 e avrà una bella gatta da pelare: conciliare la presenza della Russia con quella degli altri Stati. Un tema molto sensibile, tanto che le parole di Draghi provocano l’immediata e piccata reazione del Cremlino. Per il nostro premier «il presidente Widodo lo esclude, con noi è stato categorico», Putin «non verrà, magari farà un intervento da remoto». Per i russi «non spetta a Draghi decidere. Probabilmente ha dimenticato che non è più il presidente del G20, l’invito a Putin è stato ricevuto e accettato». Mentre l’ambasciatore Sergey Razov rimane su un sentiero di provocazione: «La maggior parte delle aziende italiane, nonostante le pressioni, continua a lavorare sul mercato russo».

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