I sindacati litigano con il governo sulle pensioni, su Quota 102 o 104, insomma litigano per tutelare gli interessi di chi oggi ha più o meno fra i 60 e i 64 anni. Ma siamo sicuri che sia quella la fascia di età che ha più bisogno di una battaglia sindacale? E non piuttosto i giovani, che fanno una fatica del diavolo a trovare lavoro e in pensione ci andranno forse a 80 anni, e con assegni miserrimi? Mi autodenuncio: sono nato il primo novembre del 1958 e faccio quindi parte della categoria più privilegiata della storia d’Italia, quella nata fra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta.
La nostra generazione è la prima della storia a non avere conosciuto
una guerra; e, rispetto a quelli nati fra il 1946 e il 1958, neanche gli
stenti del dopoguerra. Siamo la prima generazione ad aver conosciuto il benessere:
il frigorifero, la lavatrice, la televisione, le vacanze al mare, i
regali di Natale, l’automobile di papà. Siamo stati bambini negli anni
del boom. L’Italia era lodata in tutto il mondo, era il Paese del ‘miracolo economico’.
Uno scrittore, Carlo Castellaneta, chiamò i Sessanta gli ‘anni beati’: e
la musica leggera, i Carosello, il varietà di quel tempo trasmettono
infatti un’immagine spensierata. Di ottimismo, di fiducia nel futuro.
Roma, – “Tor Bella Monaca deve diventare bella come il suo nome”. Annuncia grandi cose per la periferia più difficile della capitale Vittorio Sgarbi, che dal web lancia un appello all’attore Moni Ovadia per fare rinascere il teatro del Sesto Municipio di Roma, dove il noto critico lavorerà come assessore alla Cultura. È l’ultimo colpo di scena di una campagna elettorale sbalorditiva, che ha portato il centrosinistra di Roberto Gualtieri a superare ogni aspettativa, relegando Michetti nell’angolo. E, infatti, il Municipio VI, con Tor Bella Monaca e Tor Angela, è l’unico vinto dal centrodestra con il presidente Nicola Franco, che si è conteso la vittoria al ballottaggio contro la pentastellata Francesca Filipponi.
Deputato e sindaco di Sutri, il critico d’arte era stato
indicato come titolare della Cultura della Capitale in caso della
vittoria di Enrico Michetti, candidato sindaco del centrodestra. In
passato Sgarbi è già stato assessore alla Cultura a Milano.
“L’idea di essere assessore alle periferie, nella squadra del
presidente Nicola Franco, di rendere gaia la Torre, bella la
Torre Monaca, angelica la Torre Angela. I nomi di questi luoghi,
Finocchio compreso, legati alla cattiva nomea, che sembrano luoghi di
nomadi, disperati, poveri”, spiega Sgarbi in un video. L’inchiesta sui quadri falsi Sgarbi prosciolto
Una tranvata, quella presa da Letta e da Conte, che lascerà il segno, annunciata quanto stupida. Annunciata perché era chiaro che tra i senatori dei due partiti, Pd e Cinque Stelle, non proprio tutti erano d’accordo sull’intero contenuto della legge Zan contro l’omofobia e nel voto segreto lo hanno certificato. Stupida perché ampiamente evitabile se solo le sinistre avessero accettato di modificare alcuni articoli della legge che mettevano a rischio la libertà di opinione e indirizzavano verso un pensiero unico di Stato non solo sui temi dell’omosessualità. Niente di grave: i diritti dei gay e dei trans e il loro onore non vengono per nulla sviliti in quanto già ben tutelati da numerosi articoli del codice penale. In compenso, con la bocciatura di ieri, ogni famiglia potrà educare i figli come meglio crede e nessuno potrà essere portato in tribunale per le sue idee in materia di sessualità o di etica. I senatori del centrodestra, votando compatti per il no, non hanno – come qualcuno vuole farci credere in queste ore – difeso l’omofobia bensì difeso libertà fondamentali che non possono essere lasciate neppure nelle mani dei magistrati, soprattutto dei nostri, così carichi di pregiudizi peri quali la stessa cosa detta da me ha un valore diverso che detta da qualcuno dei loro amici. Pd e Cinque Stelle non possono proprio puntare il dito contro nessuno, hanno perso in aula per mano dei propri franchi tiratori perché quella legge non stava in piedi talmente era illiberale e in alcuni punti liberticida. E basterebbe questo a capire i rischi che correremo se lasciassimo il Paese esclusivamente nelle loro mani.
«Disse il prete: fa quello che ti dico ma non fare quello che faccio
io». Il proverbio calza alla perfezione, come un abito sartoriale, al
numero uno della Cgil Maurizio Landini. C’è un paradosso che sta venendo
fuori e che investe il capo dell’organizzazione sindacale rossa. Lo
scivolone è sulle pensioni, il terreno su cui Landini muove la guerra al
premier Mario Draghi. Una storia che alimenta veleni e malumori nel
sindacato. Landini si eleva a paladino dei giovani. Ma conserva da
«pensionato» la poltrona di segretario generale della Cgil. Alla faccia
dello slogan «spazio ai giovani». Proprio lui che, tre giorni fa,
uscendo da Palazzo Chigi, dopo il tavolo con Draghi sulle pensioni, ha
dichiarato: «La mia battaglia è per le nuove generazioni. Serve una
pensione di garanzia per i giovani. Con un sistema così tra 40 anni i
giovani non avranno una pensione pubblica». Battaglia che, però, sembra
aver accantonato quando, due anni fa, è stato chiamato a guidare il
sindacato rosso. Landini è un segretario in età pensionabile. Ma non
molla la poltrona. E non lascia spazio a quei giovani che dichiara di
voler difendere. Una bella contraddizione.
Landini è stato eletto segretario generale della Cgil, nel gennaio del 2019 all’assemblea di Bari. Quando, calcoli alla mano, avrebbe potuto già fare domanda di pensionamento e far spazio a forze fresche. Nulla da fare. Il segretario della Cgil, oggi, ha 60 anni; nel 2019 di anni ne aveva 58. In un’intervista al Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2014 Landini dichiarava: «Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c’erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel 77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel 78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago». I conti sono semplici. A meno che non abbia lavorato come abusivo, dal 1977 fino al 2019 (anno di elezione al vertice della Cgil) Landini avrebbe maturato 42 anni di contributi. Nel 2019 i requisiti previsti dalla legge, 58 anni e 42 anni di contribuiti, avrebbero consentito al segretario Cgil di fare richiesta di pensionamento.
Nuova “brutta” notizia per gli automobilisti. Dopo l’obbligo di
fare la polizza RC anche sui veicoli e ciclomotori fermi nel proprio
cortile o parcheggio di cui si è parlato in un precedente articolo de IlGiornale.It, arriva ora anche l’aumento (fortunatamente di poco più di 10 euro) sulla revisione auto.
A
partire dal primo novembre, difatti, per avere il certificato sul
corretto funzionamento meccanico del veicolo non si pagheranno più 66,88
euro, ma 79,02 euro (quindi 12,14 euro in più) se la revisione è fatta
in un’autofficina autorizzata, mentre sarà di 54,95 euro (con un aumento
di 9,95 euro) se il controllo sarà effettuato presso la motorizzazione
civile.
L’aumento era stato deciso già un anno fa ma poi messo da
parte essendo in piena pandemia; ora, però, il rincaro è reso ufficiale
ed andrà ad incidere sugli oltre 15milioni di autovetture stimate
circolanti nel nostro Paese. A supporto è stato destinato un bonus da
4milioni di euro che, però, calcolatrice alla mano andrà a toccare
coprire solo 400mila revisioni ministeriali (poco meno del 3% del
totale).
La revisione è un controllo sul mezzo in circolazione, in
particolare di tipo meccanico sui freni, alle sospensioni, alle luci,
alla frizione, alle emissioni di gas. Il controllo deve essere
effettuato con cadenza prestabilita in base all’anzianità del mezzo: per
le autovetture nuove la prima revisione si ha dopo 4 anni, rispettando
il mese in cui l’auto è stato immatricolata; successivamente la cadenza è biennale.
Roma è pronta a ospitare il G20, la conferenza dei leader delle venti economie più sviluppate del pianeta. Vaccini, clima e salute al centro dell’agenda del capi di Stato. In programma oggi il meeting congiunto dei ministri delle Finanze e della Salute per fare il punto sui vaccini e sulla situazione pandemica.
Biden a Roma Il presidente è già atterrato nella
Capitale. Ad accompagnarlo giù dalla scala dell’Air Force One, la
first lady Jill Biden. Con loro anche il segretario di Stato Usa Antony
Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. L’agenda
istituzionale è fitta di impegni: dall’incontro con il presidente della
Repubblica Mattarella al premier Mario Draghi. Previsto anche un
incontro con Papa Francesco. Un incontro importante, per il primo
presidente cattolico Usa a distanza di sessant’anni da Kennedy. Poi
anche un faccia faccia con il presidente francese Emmanuel Macron, nel
tentativo di ricucire lo strappo legato al patto Aukus, l’accordo tra
Francia e Australia per la vendita di sottomarini scavalcato di fatto
con l’acquisto da parte di Cranberra di mezzi statunitensi, scatenando
una dura polemica da parte del governo francese. Il soggiorno europeo di
Biden proseguirà a Glasgow, sede della prossima edizione della Cop26,
la conferenza sul cambiamento climatico cui prenderanno parte 197
nazioni.
TORINO. Scontentare il Pd nella formazione della giunta?
Fatto. Scegliere un architetto milanese per affidargli la guida
dell’assessorato all’Urbanistica di Torino? Fatto. Puntare su Rosanna
Purchia, professionista napoletana che ha appena risanato i conti del
Regio come assessore alla Cultura? Fatto. In poco più di una settimana
da sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, ha rotto schemi di gioco
tradizionali del centrosinistra.
Primo: ha scelto i suoi assessori senza applicare il manuale
Cencelli. Secondo: il governo comunale è a trazione femminile con sei
donne e cinque uomini. Terzo: il programma punta a ricucire la città. Lo
Russo, soprattutto, ha riconquistato Torino ed è l’unico sindaco Pd
grandi città del nord Italia. Per Enrico Letta la sua campagna
elettorale lo ha fatto diventare un leader nazionale ma lui afferma di
non «essere interessato a quel ruolo». «Voglio amministrare Torino»,
insiste ed esclude di arruolarsi nel partito dei sindaci evocato da
Antonio Decaro. Il primo cittadino di Bari e presidente dell’Anci,
accusa il Pd di «non valorizzare i sindaci che, dopo il presidente della
Repubblica sono le figure istituzionali in cui i cittadini hanno più
fiducia per poi perdere le politiche».
Il sindaco di Torino, alla sua prima uscita pubblico dopo
l’insediamento ufficiale – «ho la fascia dalle 11 e 23 di mercoledì» –
sceglie il forum organizzato da La Stampa e coordinato dal direttore
Massimo Giannini, per annunciare le prime mosse della sua giunta. Lo ha
fatto rispondendo alle domande dei giornalisti ma anche alle
sollecitazioni proposte dallo storico Giovanni De Luna e dal sociologo
Marco Revelli.
Perché non vuole iscriversi al partito dei sindaci?
«La questione del rapporto tra il Pd e sindaci deve essere ribaltata:
non serve un partito degli amministratori locali. Ma i dem in
Parlamento e al governo devono lavorare per dare più forza alle
politiche degli enti locali. Mi pare che Enrico Letta abbia questa
consapevolezza e sia pronto ad agire di conseguenza».
Quale sarà il primo banco di prova della capacità di modificare questo rapporto?
«La gestione dei fondi del Pnrr. Sarà determinante capire se il
sindaco sarà solo un’ufficiale pagatore oppure se avrà la possibilità di
dire la sua. Credo che su un tema come questo sia possibile fare rete
tra gli amministratori locali».
Anche con Milano?
«Con il sindaco Sala ci siamo solo scambiati dei messaggi e ci
vedremo presto. Il nostro problema sono i rapporti con i burocrati
romani».
Il Governo Draghi ha approvato la sua prima legge di
bilancio, quel provvedimento governativo che un tempo si chiamava legge
finanziaria. Dopo tanti anni di stagnazione, quella varata ieri è la
prima finanziaria di un Paese che finalmente è tornato a crescere, anche
se non dobbiamo mai dimenticare che la crescita del 6 percento
rappresenta un rimbalzo dopo la peggior recessione del dopoguerra. In
termini macroeconomici, quella varata dal Governo è una correzione di
bilancio espansiva.
I provvedimenti riguardano circa 30 miliardi di euro tra variazioni
di entrate e nuove spese, ma saranno finanziati per circa 23 miliardi in
deficit, che in semplici parole significa attraverso l’emissione di
nuovo debito pubblico.
Ovviamente il contesto internazionale, la sospensione delle regole
europee e l’esistenza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)
rendono questo provvedimento realizzabile senza difficoltà nel breve
periodo.
In parte grazie a questa manovra espansiva, il Governo e i principali
istituti internazionali prevedono che il paese continuerà a crescere
nel 2022 con un robusto 4-5 per cento. Rimarremo pertanto in un periodo
macroeconomico in cui ai cittadini si concede ben più di quanto si
chiede loro, come aveva efficacemente detto prima dell’estate il
Presidente del Consiglio. L’attesa più importante di molti cittadini è
quella legata alla riduzione delle tasse per circa 12 miliardi (pari a
0.7 % del PIL), attualmente accantonata in un fondo del quale non si
conoscono ancora i beneficiari. Probabilmente queste risorse saranno
utilizzate per ridurre le imposte sul lavoro e il cosiddetto cuneo
fiscale, la differenza tra quanto le imprese pagano il lavoro e quanto
effettivamente entra in cassa ai lavoratori. Quella forbice è una tra le
più alte dei paesi OCSE e cercare di ridurla è cosa buona e giusta.
Spesso si è cercato di farlo, ma i risultati sono stati modesti. Legati
al mondo del lavoro vi sono poi altri due provvedimenti di cui si è
molto parlato. In termini previdenziali, per il 2022 si passa da quota
100 a quota 102. Si potrà quindi andare in pensione con 64 anni di età e
38 anni di contributi. Non è una riforma della previdenza, ma una
misura tampone che rimanda di un anno il problema del cosiddetto
scalone, quel rischio di un rapido aumento dell’età pensionabile per le
generazioni nate intorno al 1958. Il Governo destina poi circa 3
miliardi di Euro per la riforma degli ammortizzatori. Rispetto alle
aspettative, si è forse partorito un topolino, poiché con 3 miliardi di
euro difficilmente si potrà mettere ordine al complesso sistema degli
ammortizzatori sociali che in Italia rimane frastagliato e iniquo,
penalizzando i giovani precari. Il Governo ha poi annunciato una stretta
sul reddito di cittadinanza. Il provvedimento introdotto dal primo
Governo Conte ha contribuito a ridurre la povertà, ma sappiamo che ha
anche generato fastidiosi abusi. In aggiunta, non è servito a facilitare
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Questo non deve stupire,
poiché era quasi impossibile che con un sussidio di ultima istanza –
quale è il reddito di cittadinanza – si potesse risolvere lo storico
problema della distanza tra offerta e domanda di lavoro.
«Kick the can down the road». Carlo Cottarelli sceglie un
modo di dire inglese per commentare Quota 102 e il rinvio della riforma
delle pensioni. Una frase che letteralmente significa «calcia la lattina
lungo la strada» e viene usata quando si vuole evitare o ritardare la
gestione di un problema. È una legge di bilancio che «rimanda a una
discussione successiva diversi interventi, proprio per evitare scontri
con le parti sociali», sottolinea il direttore dell’Osservatorio sui
conti pubblici italiani dell’Università Cattolica. Nel provvedimento,
spiega l’ex commissario alla Spending review, ci sono misure «abbastanza
ragionevoli, però continuiamo ad aumentare il debito, anche se con il
rimbalzo della crescita il rapporto debito-Pil comincia a ridursi». Il
futuro di Mario Draghi, a Palazzo Chigi o al Quirinale, rappresenta «una
grossa incertezza. Io credo che sarebbe utile se rimanesse presidente
del Consiglio fino al 2023».
Come le sembra la legge di bilancio? Scorge una visione che tenga insieme questa manovra monstre composta da 185 articoli? «La
visione è quella di un rientro graduale dopo l’enorme sostegno dato
dalla finanza pubblica al Paese nel 2020 e nel 2021. L’economia si sta
riprendendo e si vuole scongiurare il rischio di togliere troppo presto
questo supporto».
Ci sono 23,5 miliardi in deficit sul piatto, vengono utilizzati bene questi soldi? «Le
misure di sostegno ammontano a circa 30 miliardi, ma ce ne sono più di 7
che sono di copertura. Nel Documento programmatico di bilancio si
indicavano 4,5 miliardi di maggiori entrate e 3,2 miliardi di minori
spese. Bisogna vedere da queste voci generiche cosa viene fuori, ci sarà
scritto nelle pieghe del bilancio, però non vedo un’azione di revisione
della spesa particolarmente intensa».
Per ridurre le tasse il governo ha creato un fondo da 8
miliardi senza definire come ripartire le risorse tra lavoratori e
imprese. «È il primo stadio della riforma fiscale, di cui
ancora non si sa molto. Questi 8 miliardi verranno utilizzati per
abbassare l’Irpef, evitando salti degli scaglioni, e per ridurre l’Irap,
di cui tutti ormai vogliono l’abolizione».
Si potevano mettere più soldi per tagliare le tasse sul lavoro? «Tenendo conto della situazione del bilancio, senza andare a tagliare la spesa non credo si potesse mettere di più».
L’esecutivo approva la manovra. Il
premier: siamo intervenuti sulle regole per l’assegno a chi è in
difficoltà. La telefonata di Conte per «trattare». Il leader M5S: noi in
trincea
Il governo ha appena approvato la manovra di bilancio, il presidente del Consiglio si sposta nella sala della conferenza stampa. Alla fine c’è un momento di leggerezza, non programmato: un cronista chiede al premier se il ministro Daniele Franco andrà al suo posto a Palazzo Chigi, l’anno prossimo. Draghi
scoppia in una fragorosa risata, poi sussurra, andando via, «deciderà
il Parlamento». Secondo un’altra versione, a seconda di chi è riuscito
ad orecchiare, «deciderà lui….». Nel frattempo, lo stesso Franco, si
schermisce e fa visibilmente di no con la mano. Poco prima il
Consiglio dei ministri si è concluso con un applauso. Il ministro Renato
Brunetta enfatizza il dato del Pil, che quest’anno crescerà oltre il
6%, e tutti i ministri apprezzano le sue parole. Mario Draghi invece
minimizza: «Andremo ben oltre il 6%, ma assorbiamo anche questa notizia e
andiamo avanti».
I punti chiave L’illustrazione della manovra da parte di Mario Draghi, con a fianco il ministro dell’Economia e il ministro del Lavoro Andrea Orlando dura
oltre un’ora. I punti chiave che Draghi sottolinea è che si tratta di
una «manovra espansiva, in cui si migliora la spesa sociale, anche
perché non esiste buona crescita senza coesione sociale». A sorpresa
rivela che la posta per la riduzione delle imposte è di 12 e non di 8
miliardi, che «nel triennio 2022-2024 ci saranno quasi 40 miliardi di
riduzione delle tasse», mentre per gli investimenti di raggiungerà una
cifra inedita, «saranno 540 miliardi di euro nei prossimi 15 anni,
considerando sia le risorse del Piano nazionale di riforme, sia i fondi
già stanziati sia quelli di questa legge di bilancio». Sulla
destinazione precisa del taglio fiscale il governo deciderà insieme al
Parlamento e alle parti sociali.
Coesione sociale La parola crescita, relativa al prodotto interno lordo, è quella che
Mario Draghi pronuncia di più in conferenza stampa: «È un momento per
l’Italia molto favorevole, dobbiamo essere capaci di mantenere questa
crescita anche negli anni a venire. Gli ultimi due trimestri sono stati
notevoli, il quarto si preannuncia egualmente positivo. L’Italia cresce
molto ora, ma questa legge di bilancio non assicura che questa crescita
continui in futuro, dovranno essere gli italiani a contribuire, ma oggi
si gettano le basi perché continui a un livello piu alto e sia anche più
equa». Un elemento e una riflessione che ha ricadute anche su altri
dati economici: «Dal problema delle pensioni così come dal problema del
debito pubblico si esce solo crescendo molto. E questo è lo spirito di
questa legge».
Reddito di cittadinanza Una delle misure più importanti del provvedimento è la revisione del meccanismo del reddito di cittadinanza. In Consiglio dei ministri il tema è stato dibattuto dai ministri dei Cinque Stelle, l’ex premier Giuseppe Conte
ha telefonato a Draghi per difendere l’impianto originario. Le parole
del presidente del Consiglio davanti ai cronisti raccontano comunque che
l’intervento del governo è molto incisivo: si perderà il diritto al
reddito se si rifiuterà la seconda offerta di lavoro, e non c’è dubbio
che «condivido il principio del reddito di cittadinanza, ma bisogna che
abbia un’applicazione che sia esente da abusi e non sia da intralcio al
funzionamento del mercato del lavoro. Sul decalage
ci stiamo ancora ragionando. È chiaro che il sistema precedente non ha
funzionato. È stato un disincentivo al funzionamento del mercato del
lavoro, almeno “in bianco”, in tanti casi invece ha incentivato il
lavoro in nero, associato a quello che non è stato pensato come un
sussidio. Quindi i controlli saranno diversi e molto più precisi, anche ex ante».