La società dei consumi e quel male oscuro chiamato isolamento che soffoca i più fragili

In questo senso si tratta di una piaga sociale che riflette l’altra faccia del discorso del capitalista. È l’ombra spessa che incalza l’apparente euforia permanente a cui sembra obbligarci la civiltà ipermoderna. Essa può trovare un suo paradigma clinico nella figura inquietante degli accumulatori compulsivi (secondo il Dsm “disturbo da accumulo”) che riempiono le proprie abitazioni di oggetti di ogni genere, privi di qualunque utilità e accatastati alla rinfusa. Si tratta di oggetti morti, spogliati di qualunque finalità, di oggetti devitalizzati che hanno il solo scopo di riempire un vuoto inestinguibile. Ma, in realtà, questo riempimento non sottrae affatto la vita dal suo isolamento, bensì lo accresce ulteriormente.

È la triste verità che accompagna, in generale, la cosiddetta società dei consumi. Le cose hanno preso il posto delle persone, ma la loro presenza in eccesso anziché costruire legami li disfa rendendoli impossibili come diventa impossibile muoversi nei corridoi e nelle stanze delle case stracolme di oggetti morti accumulati dai soggetti affetti da disturbo di accumulo. È lo stesso che accade, per citare un’altra figura clinica tipica dell’isolamento ipermoderno, nell’iperconnessione tecnologica. L’ideale positivo della connessione sistemica si capovolge qui in una disconnessione drammatica e silenziosa raggiunta proprio come esito paradossale di una iperconnessione illimitata, senza pause, senza tregue. L’isolamento è probabilmente destinato a diventare, se non lo è già, la cifra antropologica più inquietante della civiltà ipermoderna. La moltiplicazione illimitata dei “contatti” e l’espansione della tecnologia che li rende possibili, mascherano il reale scabroso di questa nuova condizione di vita.

LA STAMPA

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