I partiti, il personale politico e il nostro bisogno di futuro

di Sabino Cassese

Si è perduta la cornice che ha retto finora il sistema di potere italiano. Come si formano le classi dirigenti?

Con la lettera del 24 febbraio scorso ai presidenti delle due Camere e al presidente del Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica non si è limitato a segnalare il pasticcio delle concessioni balneari. Ha indicato anche altri problemi, quello dell’«abuso della decretazione di urgenza e la circostanza che i decreti-legge siano da tempo divenuti lo strumento di gran lunga prevalente attraverso i quali i governi esercitano l’iniziativa legislativa», nonché «il carattere frammentario, confuso e precario della normativa prodotta attraverso gli emendamenti ai decreti-legge e come questa produca difficoltà interpretative e applicative».

Questi problemi sono noti al governo, che sta cercando di porvi rimedio, come lo stesso presidente della Repubblica ha segnalato, ricordando «l’iniziativa che il presidente del Consiglio dei ministri ha di recente assunto, in dialogo con i presidenti delle Camere».

Ma queste sono solo alcune tessere di un mosaico. Ve ne sono altre, i cui segni sono sotto gli occhi di tutti. Vorrei provare a metterle insieme, nella loro successione funzionale, perché, considerate congiuntamente, mostrano lo slittamento in corso del nostro sistema politico costituzionale, con effetti a cascata, e una trasformazione lenta e progressiva, iniziata da tempo.

Tutto inizia con il fatto che «i partiti si sono allontanati dalla società», come ha scritto Luciano Violante, il 26 febbraio scorso, su Domani: pochi iscritti; forte diminuzione, con bruschi cali, della partecipazione politica attiva; perdita di elettori; rottura del rapporto elettori-eletti; forte volatilità elettorale; congressi rarissimi. Uno dei maggiori partiti degli ultimi trent’anni ha affidato la guida della propria organizzazione ad una candidata iscrittasi in vista delle primarie e scelta da un numero di partecipanti quasi sette volte superiore al numero degli iscritti: c’è differenza rispetto alla scelta di un «podestà straniero»? Si può dire che in questo modo quel partito riesce a perdere anche le proprie elezioni interne, dopo averle delegate ad altri?

La trasformazione dei partiti da associazioni in comitati elettorali, o tutt’al più in movimenti, e quindi il loro regresso allo stato iniziale della «forma partito», comporta anche un’altra conseguenza: le loro rappresentanze parlamentari non sono composte da eletti, ma da nominati, perché scelti dai vertici e assegnati a collegi più o meno sicuri.

Un’altra conseguenza della rarefazione del rapporto tra politica e società sta nel fatto che le forze politiche, non avendo né sicuri votanti né molti iscritti, operano in funzione di gruppi e associazioni di categorie. Mario Monti, sul Corriere della Sera del 26 febbraio scorso, ha segnalato la loro tendenza a regalare risorse dello Stato a categorie organizzate di cittadini nella speranza che questi contraccambino con il loro voto, un fenomeno non solo italiano, ma da noi più diffuso che altrove.

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